La Liturgia è “anche” un’esperienza di Cammino al “VERO”, perché è:

- un gesto deciso,

- elementare nella comunicazione per libertà, azione e concretezza,

- integrale nelle dimensioni per il richiamo cristiano alla Carità, cattolicità e cultura (tradizione),

- unitaria (comunitaria) nella realizzazione per adesione individuale (personale), con funzionalità , autorevolezza e sensibilità alla vita verso l’unità,

permettendo la partecipazione attiva a ciò che con la sensibilità si vede e con la Fede si percepisce.

ispirato a:
(Giussani Luigi, IL CAMMINO AL VERO È UN’ESPERIENZA, S.E.I. 1995 Torino)

 

APPUNTI DI METODO CRISTIANO 79

 Una grande premessa

I. San Paolo scrive ai primi cristiani di Corinto che egli aveva basato il suo messaggio «non su argomenti persuasivi d’umano ragionamento… affinché la vostra fede non si fondi sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (I Cor 2,43).

II cristianesimo non nasce come frutto di una nostra cultura o come scoperta della nostra intelligenza: il cristianesimo non si comunica al mondo come frutto della modernità o della efficacia di nostre iniziative. Il cristianesimo nasce e si diffonde nel mondo per la presenza della «potenza di Dio». «Deus in nomine tuo salvum me fac».

Questa potenza di Dio si rivela in fatti, avvenimenti, che costituiscono una realtà nuova dentro il mondo, una realtà viva, in movimento, e quindi una storia eccezionale e imprevedibile dentro la storia degli uomini e delle cose.

La realtà cristiana é il mistero di Dio che é entrato nel mondo come una storia umana. E solo la potenza di Dio che dovunque inizia, diffonde, conduce avanti il cristianesimo, negli individui e nelle società. Gesù Cristo é la fondamentale espressione di quella potenza.

Perciò é solo la realtà di Gesù Cristo che converte la mente e il cuore degli uomini.

Ecco allora il problema importante: in che modo la realtà di Gesù Cristo raggiunge gli uomini? E nella risposta a questa domanda che si determina autenticamente la realtà del mistero cristiano. La realtà di Gesù Cristo infatti non si riduce ai limiti del suo corpo e all’ambito della sua azione d’uomo: la potenza divina che é in Lui assimila a Lui in un modo misterioso ma reale le persone che gli aderiscono; la sua personalità si dilata invadendo il tempo e lo spazio, integrando in sé proprio come fondo dell’essere le persone 80 e le cose che il Padre mette sul cammino della Sua misteriosa maturità. La realtà intera di Gesù Cristo é questo «Corpo Mistico», come lo chiama San Paolo, o «la Chiesa», come la chiama la storia. E attraverso questa che Gesù Cristo raggiunge gli uomini e li genera a una nuova mentalità e ad una nuova vita: per questo si parla della «Santa Madre Chiesa». La diffusione del cristianesimo nel mondo avviene attraverso la presenza del mistero della Chiesa, che coincide con il volto di Cristo in ogni determinato momento della storia.

Ma anche in ogni ambiente il Regno di Dio, la Realtà cristiana nasce e si comunica nella misura in cui in quell’ambiente é presente la Chiesa. L’autenticità di questa presenza é lo strumento perché la potenza di Dio operi il messaggio cristiano, generi la convinzione e la conversione nelle persone.

Rendere presente la Chiesa in un ambiente: questa é la norma suprema di un metodo cristiano.

Il frutto di questa presenza dipenderà poi dai «tempi» fissati dal mistero di Dio.

II. Ma che cosa metodologicamente rende presente la Chiesa in un ambiente?

1) L’unità, sensibilmente espressa, dei cristiani (cfr. Gv 17).

Il minimo indispensabile di questa espressione é la partecipazione ai Sacramenti, ma questi, nella misura in cui sono vissuti consapevolmente, tendono a generare tutta una struttura comunitaria di vita, di tutta la vita, dal modo di concepire la propria esistenza e l’esistenza del mondo, al modo di vagliare gli avvenimenti, di programmare il futuro, di impostare il proprio lavoro, di manipolare la realtà e in particolare di usare dei propri mezzi. I sacramenti vissuti consapevolmente esigono una concezione della vita come comunione: essi svelano l’unità in Cristo come la verità più profonda dello stesso io personale, e sprigionano dal fondo di questo io l’aspirazione ad esprimere sensibilmente e a diffondere socialmente tale unità proprio come il bene più grande per l’ordine del mondo e il cammino alla felicità degli uomini: «tutti noi siamo una cosa sola, che partecipiamo dello stesso pane». Nel singolo ambiente é perciò una vita nuova, una realtà nuova, visibile («ut videant opera vestra bona»), ben verificabile come motivazione e valore. 81

2) II nesso con l’autorità, cioè col Vescovo: «uniti al Vescovo come a Cristo» (Sant’Ignazio).

E questa la «forma» di ogni vera comunità cristiana, il fattore che ne assicura l’autenticità, la integrazione nel mistero del Corpo Mistico, e quindi ancora la partecipazione alla potenza redentrice di questo. Coerentemente si può dire che la comunità cristiana in un ambiente costituisce la presenza di Gesù Cristo, e quindi della potenza divina che fa nascere e diffondere il Suo Regno, nella misura in cui essa é avallata dall’autorità e nella misura in cui essa e fondata sul riferimento dell’autorità, nella misura in cui essa è «missione» ed é vissuta come «missione». A quel riferimento tutto deve essere interiormente e geneticamente subordinato ed eventualmente sacrificato. E attraverso l’autorità che scaturisce la energia del mistero; quell’energia non nasce dalla scaltrezza delle nostre concezioni psicologiche e pedagogiche, né da nostri tentativi sociali.

La testimonianza in un ambiente non é autenticamente cristiana se non in quanto tutta tesa da questi due fattori. Anche quando il cristiano fosse isolato nel suo ambiente, é alla nascita della comunità cristiana che tutta la sua vita in quell’ambito deve protendersi, ed é alla coscienza della missione esplicitamente o implicitamente generata in lui dal Vescovo che deve animarsi quella sua presenza.

Anche il più avveduto o generoso dinamismo sociale, anche la più aperta espressione culturale, anche la più dignitosa coerenza morale sono equivocabili come significato di testimonianza se non sono qualificati da quei due fatti: solo attraverso questi, infatti, esse attribuiscono il loro valore, clamorosamente senza possibilità di scampo, alla Realtà cristiana come Realtà oggettiva, come entità concreta che eccede loro, altrimenti gli spettatori dell’ambiente volentieri identificheranno il valore della testimonianza con il caso specifico di chi la realizza, e diranno che si tratta di un gruppo eccezionale, di un movimento moderno, di personalità encomiabile con determinate sue idee, ecc. Gli spettatori quanto meno sono retti di intenzione, tanto più accettano facilmente di ammirare, essere amici o anche seguire un gruppo o una persona – perché tutto ciò rimane nell’ambito dei «pareri» e il criterio decisivo rimane continuamente alla loro mercé -, mentre il dramma della conversione é il sentirsi richiamati da una Verità oggettiva, al di là di ogni persona, e il riconoscere la presenza concreta di una Realtà che é il mistero di Cristo nella storia, la Chiesa. 82 Senza immanente ed espresso riferimento alla comunità e alla autorità, la testimonianza può facilmente ridursi, nell’animo di chi osserva, ad esempio di galantomismo o di modernità di spirito o di sensibilità sociale: richiamo ad una idea o a un modo di vita, non ad una realtà fuori di noi; «gloria» dell’uomo, non di Dio; un’altra forma di regno dell’uomo, non regno di Dio.

Un metodo di annuncio cristiano e di educazione cristiana deve partire da quel principio e da queste condizioni concrete, e cercare di svolgerne tutte le implicazioni e i suggerimenti.

APPUNTI DI METODO CRISTIANO L’incontro 83

 L’incontro

 1) É mirabile riflettere come pure nella trama del tempo naturale é attraverso il fenomeno dell’incontro che la Potenza divina chiama gli uomini ad assumere la loro parte nel provvidenziale disegno. Mentre tutto un aspetto del mondo é governato da uno svolgimento meccanico si da poterne sospettare e scoprire le leggi, l’aspetto più tipicamente umano – quello in cui entra in gioco la libertà, intuizione e amore – é tutto sollecitato da questo insorgere di incontri apparentemente casuali, quasi irrazionalità intraducibile in leggi. Eppure proprio questo crea la storia umana, la storia umana dentro l’evoluzione cosmica.

La parola «incontro» implica m primo luogo qualcosa di imprevisto e di sorprendente; in secondo luogo implica qualcosa di reale, che ci tocca realmente, che interessa la nostra vita. Cosi inteso, ogni incontro é unico, le circostanze che lo determinano non si ripeteranno più così: proprio perché ogni incontro é un brano preciso della «voce che chiama ognuno per nome»; ogni incontro è una grande occasione offerta dal mistero di Dio alla nostra libertà.

Nella storia del regno di Dio l’avvenimento rivelatore iniziale é proprio un incontro.

Nell’Antico Testamento una voce chiama un nome in un luogo preciso: «Dio mise alla prova Abramo e gli disse: Abramo, Abramo, ed egli rispose: Eccomi» (Gen 22,1. Cfr. Es 3). 84

Ma che stupore e che dolcezza – in Maria come in noi – sentire la Grande Voce in cui si imbatterono Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosé e Geremia, diventare la presenza di Gabriele: «Ave Maria».  84                   

Ma tutto questo era premessa: più imprevedibile ancora e sconvolgente e dolce l’Incontro unico, la Grande Occasione dell’umana storia. Leggiamo la cronaca di quel primo giorno in cui cominciò a diventar palese (Gv 1,35-51). Anzi se leggiamo il Vangelo e sembra di assistere ancora visibilmente al formarsi della prima trama del regno di Dio attraverso gli incontri di Gesù:

Incontro con il paralitico (Mt 9,1-7); Incontro con Matteo (Mt 9,9); Incontro con la figlia di Giairo e la figlia malata (Mt 9,18-26); Incontro con i due ciechi {Mt 9,27-31); Incontro con il muto indemoniato (Mt 9,32-34); Incontro con il giovane ricco (^9,16-22); Incontro con la vedova di Naim (Lc 7,11-17); Incontro con il centurione (Lc 7,1-10); Incontro con la peccatrice (Lc 11,36-50); Incontro con Zaccheo (Lc 19,1-10); Incontro con Nicodemo (Gv 3,1-11); Incontro con la Samaritana (Gv 4,1-42).

E, infine, lo strumento dell’esplosione del regno di Dio nell’Impero Romano, Paolo, fu afferrato in quell’incontro memorabile che sembra unire la forma misteriosa dell’Antica Voce con l’umanità concreta di una compagnia: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4).

 2) All’origine della storia del cristianesimo troviamo della gente comune che ha incontrato Uno e lo ha seguito. Ma come possiamo noi, ora, dopo duemila anni incontrare Gesù Cristo? Riprendiamo questo problema fondamentale già enucleato nella premessa.

Un bambino crescendo, diventando adulto, invecchiando, cambia il modo di vivere, il volto, l’aspetto, eppure é sempre la stessa persona. Cosi il mondo, il volto, l’aspetto esteriore con cui la realtà di Gesù Cristo si presenta a noi duemila anni dopo é diverso da quello con cui la stessa realtà si presentava ai primi discepoli. Fin dall’inizio il modo di prendere contatto con Lui non era appena quello di vederLo di persona: c’era anche un altro modo, quello di ascoltare i suoi discepoli (cfr. Mt 10; Gv 20). La figura di Cristo nella storia dell’uomo si presenta anche con il volto e l’aspetto dell’insieme delle persone che lo seguono, col volto e l’aspetto della Comunità cristiana: «Saulo, Saulo perché mi perseguiti?» (At 9,4).

La comunità della Chiesa é dunque il volto che la realtà di Cristo assume nella nostra vita. Cristo era veramente uomo; aveva fame, sete; a volte era così stanco da dormire anche in una barca 85 sballottato dalla tempesta, ed é veramente morto. Analogamente, la Chiesa é fatta di noi che mangiamo, soffriamo, moriamo, talmente uomini che il primo Sacramento del cammino é la Confessione.

L’incontro con la Chiesa é l’incontro con una realtà obbiettiva, con un fatto fisicamente percepibile, e che non ha nulla da invidiare alle componenti umane dell’incontro con il padre, la madre, la famiglia, gli amici.

Possiamo avere delle idee e opinioni che prendono lo spunto da verità cristiane; ma esse non sono ancora la vita cristiana che salva. Siamo chiamati ad aderire, a partecipare a una realtà che ci arriva fuori di noi, la comunità obiettiva.

Questa comunità, fatta di uomini come noi, si é diffusa in tutte le parti del mondo. Attraverso questa realtà umana, Dio si comunica a noi: é questo il valore della Chiesa:

«Non chiedo che Tu li levi dal mondo, ma che Tu li guardi dal male. Come tu hai mandato me, io mando loro… Né soltanto per questi Ti prego, ma prego anche per quelli che crederanno in me per la loro parola: che siano tutti una sola cosa come Tu sei in Me, Padre ed lo in Te; che siano anche essi una sola cosa in Noi affinché il mondo creda che Tu ci hai mandato» (Gv 17,15,18,203.): lo strumento della conversione del mondo é dunque l’unità sensibile della comunità cristiana; attraverso essa é il mistero di Dio che torna a proporsi all’individuo ed alla società.

Per rifare dentro alla nostra esistenza l’esperienza di Dio in questo mondo, dobbiamo vivere l’esperienza della comunità cristiana, cioè della Chiesa. Siamo chiamati a fare esperienza della Comunità, che Cristo ha lasciato m questo mondo e che ininterrottamente valica i secoli raggiungendo gli uomini e sollecitandoli, come ha raggiunto noi.

3) La comunità cristiana rende presente in un determinato ambiente la Chiesa, con la provvisorietà o permanenza che l’ambiente stesso esige e l’autorità decide. Essa non é innanzitutto una istituzione o una associazione: essa é innanzitutto una vita, una vita nuova e sorprendente per il «mondo».

Gesù Cristo é stato il tipo fisico concreto di questa umanità nuova. Si domandavano cosa mai pretendesse, tanto era come gli altri; quando parlava, usava parole e idee del suo popolo. Eppure 86 era un altro mondo, che Egli rivelava, un mondo non certo estraneo all’uomo, ma che l’occhio e il cuore della gente, dapprima ignari, si sentivano come nascere davanti e dentro di loro: «In verità, in verità ti dico: se uno non nasce di nuovo, non può entrare nella Realtà vera», disse Gesù a Nicodemo. II cristianesimo é un nuovo modo di vivere questo mondo. É un tipo di vita nuova: non rappresenta innanzitutto alcune esperienze particolari, alcuni modi, gesti accanto ad altri, alcune espressioni o parole da aggiungere al solito vocabolario: il cristiano usa il vocabolario che tuttl gli uomini usano, ma il significato delle parole é diverso; il cristiano guarda tutta la realtà come chi non é cristiano, ma ciò che la realtà gli dice é diverso, ed egli reagisce in modo diverso.

Una lealtà profonda col suo ambiente caratterizza il cristiano:

perché il posto che Dio gli ha affidato é dentro questo mondo, dentro le gioie e le fatiche, là dove si é, nell’ambiente, cioè – come dice la parola – in «ciò che ci circonda». Ma questo brano di mondo, in cui vive con intensa adesione, il cristiano l’affronta secondo uno spirito e un cuore nuovi, nati «non da sangue, non da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma dalla potenza di Dio».

Certo, sempre abbiamo la tentazione di arrestarci allo scetticismo di Nicodemo: «Ma come può avvenire questo?». La risposta é scoperta solo nell’esperienza di vita che la comunità cristiana ci

chiama a compiere, rinnovando continuamente la fresca coscienza della prima cristianità, come é testimoniato da questo antico brano:

«I cristiani non hanno una lingua esotica, non si separano dagli altri, non vivono una vita diversa. Pur osservando le abitudini locali, mostrano attraverso questo di avere carattere unico. La loro vita é come un paradiso. Abitano in patrie particolari, ma come gente che abita ovunque. Partecipano ai doveri di ogni cittadino e sanno accettare e vivere l’ospitalità con delicatezza e generosità sconosciute ad altri. Si sposano, hanno bambini, ma non lasciano i loro bambini sulle strade, non li abbandonano (cosa che é solita là dove il mondo non é toccato dal cristianesimo). Mangiano come tutti ma non nello stesso modo di tutti. Hanno un corpo di carne, ma non vivono come gli altri. Hanno il corpo sulla terra, ma sono cittadini di un altro mondo. Si innalzano liberi al di sopra di ogni legge pur seguendo le leggi del loro paese. Sono poveri, ma arricchiscono lo spirito degli altri, mancano di tutto, e sono tranquilli come se sovrabbondassero. Sono calunniati, ingiuriati benedicono.87

Hanno una capacità di rispetto ignota agli altri. Puniti godono, perché così sono resi simili a Colui che li ha fatti nascere. Quello che l’anima é per il corpo, sono i cristiani per il mondo. Il mondo  odia i cristiani, eppure essi hanno una gioia ad altri ignota. Sono trattenuti nella prigione del mondo, ma sono essi che danno senso al mondo. Dio ha loro assegnato un posto che essi non hanno la possibilità di disertare» (dalla Lettera a Diogneto, V.VI).

 4) Ognuno può accorgersi che all’origine di più vera partecipazione ad una vita di Chiesa, perciò di comunità, stanno incontri che si sono fatti e incontri che ancora si fanno. Così ognuno di noi può diventare «incontro» per compagni ed amici.

Ma perché abbiamo una consapevolezza sempre più chiara del valore di tutto questo, fra le molte possibili puntiamo l’attenzione su queste cose:

a) l’incontro con una comunità cristiana viva, o con un cristiano che colpisce perché ci dice qualcosa che sentiamo vero, ha la caratteristica di una novità e di un valore senza pari. Ma attraverso una frase, una parola, un gesto vediamo affiorare nella realtà presente l’incontro con una tradizione che ha le sue radici nei secoli. L’incontro con quella comunità o quel compagno, cioè, ci comunica un annuncio che sgorga da una vita di secoli, dalla tradizione’. Ciascuno di noi emerge da un flusso che nasce da questa solidarietà umana e cristiana. Amare la comunità, amare l’incontro che l’ha generata significa dunque amare questa tradizione dalla quale siamo nati, riconoscere questa realtà secolare che rende possibile l’esistenza cristiana in noi. Solo un nostro impegno con la tradizione, con la realtà cristiana nei secoli, potrà renderci capaci di essere a nostra volta un incontro per gli altri, di rappresentare anche per gli altri quella imprevedibile novità che richiama alle origini del nostro essere.

L’esperienza dell’incontro é dunque un’esperienza di novità tanto più profonda quanto più diventa consapevole del suo inserimento in un passato cosi lungo. Dobbiamo perciò educarci ad amare questa vita passata che si é mossa da tanti secoli per raggiungere noi, con il volto della nostra vita d’oggi.

b} Come l’incontro non é predisposto da noi, così il nostro agire non é condizionato dai nostri successi. Il motivo che ci muove e 88 che giustifica la nostra diffusione non é in noi, ma é al fondo di noi, là dove c’é un Altro, Colui che adoriamo. Noi vogliamo realizzare non un nostro partito, non un nostro progetto, ma qual cosa d’altro, di puro, di netto, che non dipende da noi, ma da Colui che ci ha fatti.

Per questo l’incontro accettato con semplicità ci dà una grande libertà di spirito che non ci fa mai fermare, che ci fa agire indipendentemente dalla nostra cultura o dalla nostra scaltrezza, al di sopra perfino del nostro cuore. Questa fede, questa sicurezza l’abbiamo perché un Altro agisce in noi. La nostra libertà é quella semplicità ed ingenuità per cui non ci stancheremo mai di rivolgerci a chiunque, di ripetere a chiunque l’invito a quell’incontro, che é definitivo nella vita di un uomo.

c) Sia l’incontro con Dio che l’incontro con qualche persona o l’incontro con la comunità può nascere come l’evidenza di un momento e vivere poi solo nel ricordo. A volte appare come «un lampo nella nebbia», ma ugualmente questo fugace apparire ci lascia la sicurezza di aver trovato, per dirla con un gioco di parole, «qualcosa in cui c’é dentro qualcosa».

Infatti anche se subito dopo il buio si richiude attorno all’uomo, questo non può rimanere lo stesso. Un eventuale atteggiamento di indifferenza non può essere che uno stato d’animo in cui si cerca di affondare il ricordo di quell’incontro; ma questo rimane un fatto incancellabile dalla propria vita. In ogni caso l’incontro sarà tanto più significante quanto più l’uomo si presenterà ad esso senza schemi propri da salvare, condizioni da porre, previsioni da far avallare, ma con disponibilità profonda, unico atteggiamento adeguato a quel senso del mistero da cui dovrebbe partire ogni umano confronto.

Tale disponibilità il Vangelo chiama «povertà nello spirito», che é anche «libertà dello spirito».

 L’incontro come verifica

 1) Non é vero incontro se non esercita su di noi in qualche modo un richiamo. Ed ogni richiamo é sempre obiettivamente una proposta. Quanto più uno ha intelligenza e sensibilità, tanto più s’accorge di quanto la sua vita sia tramata di incontri e come ogni incontro costituisca un richiamo e contenga una proposta. Nell’immenso 89 coro di proposte che costituisce la trama della sua esistenza, l’uomo per natura e spinto a «paragonare», e immediatamente a paragonare ogni singola proposta con quel complesso di strutture originali – principi, evidenze, esigenze – che costituiscono il suo essere. Se la proposta fatta appare in questo paragone sollecitatrice delle sue autentiche esigenze, valorizzatrice delle sue possibilità, allora automaticamente l’uomo sente simpatia verso di essa, e l’approva. Sant’Agostino parlava di una «delectatio victrix»; ma il gioco psicologico indicato da lui si può intendere assunto nella definizione che San Tommaso dava della verità: «adaequatio rei et intellectus»; quasi cioè la scoperta della corrispondenza fra quello che si pone davanti (fra la «proposta») e quello di cui ho coscienza come struttura della mia natura.

Il richiamo implica cioè la proposta di una verità cosi esistenziale, di qualcosa così pertinente alla nostra natura e vita, che noi ci sentiamo spinti a cercar di capire dove esso ci porta: ci sentiamo spinti ad aderirvi.

Questo procedimento interiore, che caratterizza la vita di ogni essere ragionevole, anche se nel filosofo solo diventa consapevolezza chiara, sta  all’origine della reazione immediata di tutta la gente che incontrò Gesù: «Questo si che parla con autorità»; «Ha fatto bene ogni cosa, ha fatto parlare i muti e udire i sordi»; «Nessuno ha mai parlato come questo uomo»; «Potente in parole ed in opere davanti a Dio ed al popolo». Gesù, del resto, l’aveva previsto:

«Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la realizzano»; l’incontro con la parola e la potenza di Dio é sempre per l’uomo l’incontro con qualcosa che lo rivela a se stesso, lo potenzia, lo valorizza. Fu così dalla grande speranza destata in Abramo: «Leva gli occhi al cielo e conta le stelle se puoi: cosi sarà la tua posterità» (Gw 15,5), alla grande funzione cui fu chiamato Mosé: «Ora-va, io ti mando dal Faraone per far uscire dall’Egitto il mio popolo i figli d’Israele» (Es 3,10), al grande tragico fascino che legò alla sua missione Geremia.

Ma i salmi rendono la stessa cosa a livello dell’uomo qualunque: «Beati quelli che rispettano i tuoi ordini»; «Ripetimi o Signore la parola con la quale mi hai suscitato la speranza»; «Se tu non fossi il mio grande conforto sarei già perito nelle mie sventure»; «Mettimi in cuore una gioia profonda, più grande dell’abbondanza di vino e frumento…». II documento più semplice e più potente  nello stesso tempo del richiamo e della proposta immanenti all’incontro 90 con Cristo, e della forza in essi obbligante all’adesione a Lui é l’espressione di Pietro nella Sinagoga di Cafarnao: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole della vita eterna», le parole che danno senso e valore alla nostra vita.

E da notare che la forza di quella proposta é stata sentita in tutta la sua intensità solo da coloro che hanno seguito Gesù continuamente: solo da coloro che si sono impegnati con Lui sinceramente.

 2) Come l’incontro, così la proposta cristiana si identifica per noi, oggi, col richiamo che ci vien fatto da una realtà umana intorno a noi; ed é magnifico che questa proposta, unica fra tutte le altre, abbia un volto cosi concreto, cosi esistenziale: sia una comunità nel mondo, un mondo nel mondo, una realtà diversa dentro la realtà, e non diversa per interessi diversi, bensì per il modo diverso di realizzare i comuni interessi. II volto di questa proposta muta, ma essa rimane una, l’unico mistero della Chiesa visibile, sensibile Realtà. Occorre vivere questa Realtà, impegnare noi, tutti noi, con questa Realtà, cioè entrarvi dentro e paragonare tutte le sue movenze, tutti i suoi suggerimenti, tutte le sue direttive con le esigenze ultime della propria umanità; ed é nella misura in cui quei suggerimenti, quelle direttive, quelle iniziative noi scopriremo risolutrici delle nostre autentiche esigenze di uomo e quindi valorizzatrici di queste, che si spalancherà m noi sempre più grave e definitiva la adesione e la convinzione. Non é dunque solo studiare la teologia o fare un’associazione, ma é tutto, tutta la vita, perché la proposta ci arriva, ci raggiunge come nuova vita. Essere «convinti» vuol dire essere «legati» in tutto il proprio io a qualcosa: saremo dunque legati tutti a quella Realtà; quella Realtà diventerà noi e noi ci sentiremo quella Realtà.

C’é un’esperienza che tutto riassume, pur nella sua genericità, quello che l’uomo scopre nel suo impegno cristiano: la consapevolezza di essere valorizzato come persona, come singolarità e nello stesso tempo come solidarietà al cosmo; come partecipazione amorosa al cosmo; una valorizzazione della propria autenticità personale e della propria funzione nel mondo.

Viene in mente la frase di Gesù: «Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù». La proposta cristiana ci appare come comunità che ci invita a vivere una vita: «vieni e vedi». Noi quasi, come 91 abbiamo già notato, avremmo la tentazione, come Nicodemo, di obiettare: «Sarà mai possibile»?; ma la replica non muta: «Vieni e vedi», cioè «seguimi e vedrai». É un impegno che sia pure come «ipotesi di lavoro», potremmo dire, implica un buttare tutta la nostra vita dentro la comunità della Chiesa, un identificare la vita della comunità della Chiesa con la nostra vita: allora «si vede», cioè ci accorgiamo che cosa sia per noi.

E una reale «verifica» da compiere. Chi non passa attraverso questa verifíca o rimarrà cristiano senza dir nulla di nuovo, oppure se ne andrà via.

 3) Un incontro che non fosse richiamo e proposta da verificare sarebbe talmente vuoto che la memoria non lo ricorderebbe neanche come incontro; sarebbe un avvenimento talmente inutile da non appartenere neanche alla storia.

Ognuno di noi sarà un incontro vero, «storico», per i compagni ed amici solo in quanto la sua presenza costituirà per gli altri un richiamo preciso al cristianesimo ed una proposta netta della comunità cristiana.

Ma anche a proposito di questo fatto umile e pratico, da cui dipende la forza d’attrattiva della comunità cristiana in un ambiente, non sarà inutile scegliere, fra le molte, alcune note:

a) noi innanzitutto siamo continuamente oggetto del richiamo di Cristo e della proposta della comunità. Quello che dovremo ricordare forse ad altri, ricordiamo a noi stessi.

Non é verifica di un richiamo e di una proposta un meccanico attaccamento a certa posizione quasi fosse un proprio partito; ancor meno un atteggiamento solo di curiosità; ancor meno un animo teso ad accusare e giudicare gli eventuali difetti. Non é verifica nemmeno moltiplicare la partecipazione a qualcosa materialmente, esteriormente, passivamente.

Per verificare occorre impegnare tutta la propria persona con attenzione chiara e rinnovata. E di due aspetti di questa sincerità in particolare occorre dire:

- le caratteristiche dell’impegno con una determinata proposta sono quelle che la proposta stessa esige. Non possiamo essere noi, con una iniziativa della nostra fantasia, a determinare la modalità della verifíca che dobbiamo fare, ma é la fisionomia stessa della proposta che ci impone il metodo da seguire. Se il richiamo e la 92 proposta cristiana sono ad una vita di comunità, occorrerà che questa comunità determini le forme dell’impegno.

- siamo chiamati ad un’esperienza che deve essere compiuta con fedeltà, cioé fino a quando la proposta ci é fatta. Una verifica che non abbia messo in preventivo la volontà di continuare fino a quando é provocata, nemmeno all’inizio era autentica. Siamo chiamati a seguire fino alla fine, perché la proposta cristiana ci é fatta fino alla fine, fino all’ultimo istante. É la natura stessa del richiamo cristiano che richiede così, perché é richiamo al mistero di Dio rivelato nella storia umana, e perciò richiamo alla salvezza dell’uomo.

Uno può non prendere sul serio la proposta cristiana, solo se trascura le sue originali esigenze d’uomo. Non esiste scampo di fronte a quel richiamo: o la adesione, che stabilisce un suo dramma ben preciso, il dramma dell’impegno e della santità, o la ricerca, altrettanto gravida di conseguenze. II vero genuino atteggiamento dell’uomo, che sa di non essersi fatto da sé, é quello della ricerca delle proprie origini e del proprio destino. Per questo, anche quando non é ancora arrivato a «scoprire», deve sentire conveniente e necessario alla sua vita continuare a verificare la proposta. Anche se tu cammini senza vedere, seguendo ti salvi come chi «ha visto e toccato». Per questo c’é una insospettata consanguineità tra chi veramente cerca e chi ha sinceramente trovato.

 b) autentico deve essere il richiamo dell’uomo cristiano agli altri.

Diciamo anche qui degli aspetti importanti di questa autenticità:

- é necessario chiarire il nostro concetto di richiamo, perché non rimanga in noi — e il meno possibile negli altri — alcuna confusione tra richiamo e propaganda. La propaganda infatti é il diffondere qualcosa perché la penso io o interessa me. II richiamo invece, come lo intende la Chiesa, é ridestare qualcosa che é nell’altro, é una valorizzazione dell’altro, é un gesto di carità. II richiamo che faccio a un mio compagno é aiutarlo a ritrovare la sua verità, il suo vero nome (nel senso biblico), a ritrovare se stesso.

Il  mio richiamo di cristiano é perciò il contributo più acuto alla libertà di uno, perché libertà vuol dire essere se stessi. Per questo il nostro richiamo é il gesto supremo di amicizia.

Per questo il nostro non é mai innanzitutto un richiamo a determinate forme, a determinati criteri o schemi, a una organizzazione particolare, ma a quella promessa che costituisce il cuore stesso dell’uomo. Noi riecheggiamo quello che Dio ha loro messo in cuore 93 creandoli, mettendoli in un dato ambiente, formandoli. Proprio per questo non sappiamo dove Dio li condurrà, prendendo magari spunto dalla nostra parola: il disegno é Suo. Non possiamo sapere quella che sarà la loro vocazione.

II nostro é perciò innanzitutto un richiamo a ciò che costituisce il valore della vita di un uomo, a un destino, a una vocazione, al compimento di questa, e basta.

— occorre richiamare l’altro rivivendo i motivi per cui lo richiamiamo.

E proprio lo splendore, l’espressione di questo nostro rivivere che costituisce il richiamo all’altro. Perciò il richiamo non é qualcosa di estrinseco a noi, quasi un compito fuori di noi. Quando uno ha perso la vivezza dell’adesione, richiama a freddo, come esponendo una formula, un’ideologia;  la sua é spesso una propaganda che genera solo discussioni: lui stesso si sente estraneo all’altro.

Dobbiamo far sí che tutto il nostro modo di fare, le iniziative che assumiamo, gli inviti che diamo, siano pervasi e vivificati da una genuina preoccupazione ideale. Noi abbiamo tutte le preoccupazioni degli altri, perché sono umane. Ma in noi c’é qualche cosa di più: in noi ogni gesto é sotteso dalla preoccupazione profonda di amare l’uomo, di aiutarlo cioé ad essere veramente libero, a camminare verso il suo destino. Questa é la legge della carità:

il desiderio che l’altro sia se stesso, che si «salvi», come senti Gesù Cristo.

Noi vogliamo essere gente che va a scuola e al lavoro con la preoccupazione di prendere un bel voto o di prendere una buona paga, con la curiosità di sapere avvenimenti e cose, con il desiderio di vivere rapporti che riempiano il tempo ed impediscano la noia; ma vogliamo soprattutto essere gente che sotto tutto questo sempre si reca a scuola, va al lavoro o entra nel gruppo degli amici con una preoccupazione ideale, con la preoccupazione ideale suprema, Cristo e la Chiesa.

c) Ciò a cui la realtà cristiana ci chiama é molto più un cammino che un traguardo. Occorre innanzitutto considerare che noi siamo esseri in cammino. Non possiamo basarci sull’angoscia di uno sforzo a conversione ottenuto con le sole nostre forze. E questo dobbiamo tener presente anche per gli altri, altrimenti al fondo troveremo una delusione: o per noi stessi, perché ci si ritrova sempre con i nostri difetti nonostante l’impegno con gli incontri fatti; 94 o per gli altri, perché non cambiano come vorremmo; o per l’umiliazione sottile di vedere quelli che noi abbiamo chiamati diventare più bravi di noi.

 L’incontro come Grazia

 1) «Che cosa é l’uomo mortale, perché Tu ti ricordi di lui, il figlio di Adamo, perché Tu te ne prenda cura?» (Sal 8,5).

«Mosé disse a Dio: Ma chi sono io?» (Es 3,11).

«E io dissi: Ah, Signore Jahvé, vedi non sono neppure capace di parlare; io non sono che un ragazzo!» (Ger 1,6).

«Signore…, io non sono degno che tu entri in casa mia…» (Le 7,6).

E la coscienza della gratuità assoluta degli interventi di Dio nella storia ch’é il valore più puro ed obiettivo della vita cristiana. Perché non esiste verità più grande e dolce ed esaltante: gli incontri,

che Egli ha creati per far parte del Suo regno gli uomini – noi!

- sono dono altamente puro, che la nostra natura non avrebbe neanche potuto immaginare, prevedere: dono puro al di sopra di ogni capacità della nostra vita, «Grazia».

Gesù Cristo nel suo Corpo Mistico riassume tutto questo regno della «Grazia», della soprannaturale bontà della potenza di Dio.

Come fu Grazia per gli ebrei di duemila anni fa l’esistenza fra loro di Gesù di Nazareth e 1′incontrarLo per la strada, é la stessa Grazia per gli uomini di oggi l’esistenza della Chiesa nel mondo e l’incontrarLa nella loro società.

E non solo il fatto dell’incontro, ma anche la capacità di intenderne il richiamo é dono di Grazia:

«… Tu sei beato, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’han rivelato, ma il Padre mio che é nei cieli» (Mt 16,17).

«… In quel tempo disse Gesù: “lo ti rendo lode o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Si, o Padre, perché così ti é piaciuto. Ogni cosa mi é stata data dal Padre mio, e nessuno conosce perfettamente il Figlio tranne il Padre; e nessuno conosce perfettamente il Padre tranne il Figlio e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo…”» (Mt 11,25-27). «… Egli rispose loro: Perché 95 a voi é dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ad essi invece non é dato…» (Mt 13,11).

E la stessa capacità di verificare questo richiamo, di riconoscere il valore é dono di Grazia. «… E io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga in eterno con voi, lo Spirito cioé di verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce; ma voi lo conoscerete, perché dimorerà in voi e sarà in voi…» [Gv 14,16-17).

«… Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio nome, Egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto…» (Gv 14,26).

«… lo ho manifestato il Tuo nome agli uomini che mi hai dato nel mondo; erano tuoi e tu me li hai dati ed essi hanno conservato la Tua parola. Ora riconoscono che tutto quanto tu mi hai dato viene da Te…» (Gv 17,6-7).

«… Lo Spirito stesso attesta allo spirito nostro che siamo figli di Dio» (Rm 7,16).

E la capacità di aderire e di realizzare la proposta cristiana è dono di Grazia: «… lo sono la vera vite e il Padre mio é il vignaiolo.

Ogni tralcio che in me non porta frutto Egli lo recide e ogni tralcio che porta frutto lo rimonda, perché ne produca anche più. Voi siete già mondati dalla parola che vi ho annunziata. Restate ed io resterò in voi. Come il tralcio non può portare tutto da se medesimo, se non rimane nella vite, cosi neppure voi se non rimanete in me. lo sono la vite, e voi i tralci. Colui che rimane in me ed io in lui porta abbondanti frutti, perché, senza di me, non potete far nulla» {Gv 15,1-5).

«… Cosi parlò Gesù. Poi elevati gli occhi al cielo disse: “Padre l’ora é venuta: glorifica il Tuo figliolo affinché il Tuo fígliolo glorifichi Te; come Tu gli hai dato ogni potere sopra ogni carne, affinché dia la vita eterna a tutti coloro che Tu gli hai dato. E 1a vita eterna é questa, che conoscano Te solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo”» (Gv 17,1-3).

«… lo ho fatto loro conoscere il Tuo nome e lo farò conoscere affinché l’amore con cui mi hai amato sia in essi ed io in loro» (Gv 17,26).

Perché la mente e il cuore dell’uomo non sono mai adeguati ai passi che Dio fa verso di lui: la stessa soprannaturale bontà che fa assumere al mistero di Dio «forma di servo e figura d’uomo» (San Paolo) in Cristo e nella Chiesa, proporziona anche lo spirito 96 e la sensibilità dell’uomo a queste meraviglie, altrimenti esse rimarrebbero come luce per un cieco o parole per un sordo, come peri nostri orecchi gli ultrasuoni, che sono come il silenzio.

Anche l’incontro, dunque, con quel brano di Chiesa che é la comunità cristiana dell’ambiente in cui ci si trova é «Grazia», è un dono della potenza di Dio. Ed occorre la Grazia anche per intendere il richiamo di coloro che ne fanno parte e di chi guida, e per impegnarsi a verificare questo loro richiamo e per aderire ed essere fedeli alla loro proposta.

2) A questo punto possiamo capire quale sia l’espressione di una vera disponibilità e impegno di fronte al richiamo cristiano: é l’atteggiamento di domanda, di preghiera. La norma dell’incontro cristiano rende immediatamente consapevole l’uomo sincero della sproporzione fra le sue forze e i termini stessi della proposta, consapevole della eccezionalità del problema posto da un simile messaggio. Il senso della propria originale dipendenza, che é l’aspetto più elementare della religiosità naturale, dispone perciò l’animo semplice a riconoscere che tutta l’iniziativa può essere del mistero di Dio, e l’atteggiamento ultimo da assumere é quello umile di chi chiede di vedere, di capire, e di aderire. É talmente fondamentale questo atteggiamento di preghiera che esso é proprio tanto ai credenti che a chi ancora non crede, tanto a Pietro che esclama: «Credo, Signore, ma aumenta la mia fede», quanto all’Innominato che grida: «Dio’, se ci sei, rivelati a me».

Una disponibilità e un impegno col fatto cristiano che non si traducano in domanda, in «preghiera», non sono sufficientemente veri perché non badano con intelligente lealtà a ciò che significa la proposta che si é chiamati a verificare: «Viene l’ora che chiunque vi uccide crederà di rendere culto a Dio. E faranno questo perché non hanno conosciuto né il Padre né me» (Gv 16,21).

Questo della domanda e della preghiera é il punto in cui la coscienza dell’uomo inizia la sua partecipazione al mistero di Colui che lo crea. E il nostro spirito sente quindi le vertigini di questo Mistero che tutto, assolutamente tutto fa, quando riflette che anche questa iniziale attività di domanda e di preghiera é resa possibile solo da un dono del Creatore: «Nessuno può dire: Signore Gesù, se non nello Spirito Santo. Lo Spirito Santo sostiene la nostra debolezza perché noi non sappiamo né cosa si ha da chiedere nella preghiera 97, né come convenga chiederlo; ma lo Spirito in persona intercede per noi con gemiti inesprimibili» {R.m 8,26).

La liturgia della Chiesa ci educa a guardare questa iniziativa ineffabilmente profonda di Dio su di noi quando ci fa dire: «I nostri voti, Signore, che tu prevenendoci ci ispiri, degnati poi di accompagnarli con il tuo aiuto».

Anche l’incontro e l’impegno con la più umile comunità cristiana d’ambiente, fatta da solita gente, non si liberano da una impurità che altera giudizi e rapporti, se non sono accolti in quella disponibilità umile ed attiva – vigile – del cuore, che é genuino, anche se embrionale, vago e confuso, impeto di preghiera.

 L’incontro come esperienza

 L’esperienza é un metodo fondamentale attraverso cui la natura favorisce lo sviluppo della coscienza e la crescita della persona. Per questo non é esperienza se l’uomo in essa non si accorge di «crescere». Ma per crescere veramente l’uomo ha bisogno di essere provocato o aiutato da qualcosa di diverso da lui, di oggettivo, da qualcosa che «incontra».

E attraverso una vera, obiettiva esperienza che gli uomini s’accorsero della presenza di Dio nel mondo. San Giovanni lo scrive con impeto ai primi cristiani: « Si, la vita si manifestò e noi abbiamo

veduto e testimoniamo ed annunziamo a voi quella eterna vita che era presso il Padre e si manifestò a noi» (IGV 1, 18.). Attraverso una vera, obiettiva esperienza la presenza di Cristo nella sua Chiesa si palesa nella storia dell’uomo cosciente.

Anche l’incontro con la comunità cristiana o la verifica del suo messaggio, cosí come abbiamo descritto, é vera, obiettiva esperienza.

Questa esperienza cristiana ed ecclesiale é un atto vitale che risulta da un triplice fattore:

a) L’incontro con un fatto obiettivo, originalmente indipendente dalla persona che compie l’esperienza; fatto la cui realtà esistenziale é quella di una comunità sensibilmente documentata così come é di ogni realtà integralmente umana; comunità di cui la voce umana dell’autorità, nei suoi giudizi e nelle sue direttive, costituisce criterio e forma.98

Non esiste versione dell’esperienza cristiana, per quanto interiore, che non implichi almeno ultimamente questo incontro con la comunità e questo riferimento all’autorità.

b) II potere di percepire adeguatamente il significato di quell’incontro. II valore del fatto in cui ci si imbatte trascende la forza di penetrazione dell’umana coscienza, richiede pure un gesto di Dio per la sua comprensione adeguata. Infatti lo stesso gesto con cui Dio si rende presente all’uomo nell’avvenimento cristiano esalta anche la capacità conoscitiva della coscienza, adegua l’acume dello sguardo umano alla realtà eccezionale cui lo provoca. Si dice «grazia della/fede».

c) La coscienza della corrispondenza tra il significato del Fatto in cui ci si imbatte e il significato della propria esistenza, fra la Realtà cristiana ed ecclesiale e la propria persona, fra l’Incontro e il proprio destino. E la coscienza di tale corrispondenza che verifica quella crescita di sé essenziale al fenomeno dell’esperienza.

Anche nell’esperienza cristiana, anzi massimamente in essa, appare chiaro come m un’autentica esperienza sia impegnata l’autocoscienza e la capacità critica (la capacità di verifíca!) dell’uomo, e come una autentica esperienza sia ben lontana dall’identificarsi con una impressione avuta o dal ridursi ad una ripercussione sentimentale.

E in questa «verifica» che nell’esperienza cristiana il mistero della iniziativa divina valorizza esistenzialmente la «ragione» dell’uomo.

Ed é in questa «verifica» che si dimostra l’umana «libertà»: perché la registrazione e il riconoscimento della corrispondenza esaltante tra il mistero presente e il proprio dinamismo d’uomo non possono avvenire se non nella misura in cui é presente e viva quella accettazione della propria fondamentale dipendenza, del proprio essenziale «essere fatti», nella quale consiste la semplicità, la «purità di cuore», la «povertà di spirito». Tutto il dramma della libertà é in questa «povertà di spirito»: ed é dramma tanto profondo da accadere solitamente quasi senza che l’uomo se ne accorga.

 APPUNTI DI METODO CRISTIANO Comunione 99

 La comunione

 1) Perché Dio ci si fa incontrare nel mondo attraverso la Sua Chiesa?

Per farci entrare dentro la Sua vita che é il fondo di tutte le cose. Questa partecipazione, in linguaggio cristiano, si chiama con bellissima parola comunione: «Ciò che abbiamo veduto e sentito, lo annunziamo a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi. Quanto alla nostra comunione, essa é col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (iGv 1,3).

La «comunione» indica una capacità talmente profonda della vita della persona che questa non può da sola realizzarla: é una capacità che sta alle origini del nostro essere, là dove esso vien fatto da Dio (si chiama, significativamente, «capacità obedienziale»); é la capacità di partecipare alla vita stessa del mistero che crea tutte le cose, la Trinità. Per sua natura quindi é una forza irresistibile con cui Dio unisce a Sé via via gli uomini che secondo la Sua misteriosa libertà sceglie.

Tale irresistibile forza di unità parte, per investire tutti i meandri della storia, dalla persona di Gesù Cristo: «Tutto il Padre ha dato in mano a Lui». Più precisamente é una forza che parte dalla sua morte e risurrezione. Perciò essenzialmente si tratta di una comunione con Cristo: «Tutto ciò che é stato dato a me dal Padre, l’ho dato a voi».

Questa comunione con Cristo investe tutta la vita, genera realtà nuove e quindi dinamismi nuovi in tutta la vita e i suoi vari aspetti: «… tutti noi che fummo battezzati in Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte. Fummo, infatti, con il battesimo sepolti con Lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato da morte 100 dalla potenza gloriosa del Padre, così noi pure vivessimo di una vita nuova» (Rm 6,3-4).

Non é solo un’unità invisibile e spirituale che essa crea, ma vera unità anche fisica, come quella di coloro che mangiavano con Lui, o camminavano con Lui, o fuggivano con Lui: é proprio la indefettibile continuità della comunità della Chiesa la realtà in cui si rigenera continuamente questa comunione completa con Cristo.

Il Battesimo e i Sacramenti sono il momento fisicamente generativo e rigenerativo di tutto questo.

 2) Ma – é la cosa che vogliamo sottolineare – per ciò stesso che entriamo in comunione con Cristo noi entriamo in comunione, irresistibilmente, con tutti coloro che «il Padre ha dato in mano a Lui», cioè con tutti coloro che, memori o no, sono stati afferrati dal mistero della Morte e Resurrezione nel battesimo.

Per questo la comunione fra i cristiani nell’ambiente in cui vivono, l’unità fra loro vissuta fino a investire tutti gli aspetti della loro presenza in quell’ambiente é la vera insostituibile testimonianza al Cristo vivente, alla forza attuale della sua morte e risurrezione:

«Christus heri et hodie, ipse et in saecula». Non é comunione con Cristo se non tende a tradursi in comunità di Chiesa nell’ambiente in cui si vive. La comunione con Cristo é un avvenimento eminentemente personale; ma quanto più essa é consapevole e fedele, tanto più tende a generare la vita di una comunità cristiana, momento del Corpo Mistico in un determinato luogo, e a identificare la vita del singolo con la vita di quella concreta comunità.

In un determinato ambiente il mistero della Comunione di Dio e dell’uomo é quindi presente nella misura in cui:

- ci sono cristiani che riconoscono ed attuano l’unità di vita tra di loro come l’espressione della realtà più sostanziale della loro stessa persona – espressione di un valore più profondo e decisivo di qualunque altro interesse: «Mihi vivere Christus est» -, e questo Cristo, più me di me, é il Cristo nel suo Corpo Mistico, in concreto quindi il Cristo della comunità che mi tocca; – tale unità di vita é approvata dal Vescovo, ed é tenuta quasi con una «fame» di obbedienza al Vescovo, perché – come abbiamo già ripetuto – é la dipendenza viva dal Vescovo che assicura la integrazione della comunità concreta nel mistero del Corpo Mistico. 101

D’altra parte il mistero di Cristo e della Chiesa universale si attua proprio attraverso le comunità concrete di luogo, di ambiente; altrimenti sarebbe una trascendenza senza tempo e spazio, senza incarnazione. La potenza di Comunione, propria del mistero di Cristo, raggiunge il singolo uomo e lo trasforma esattamente attraverso la realtà delle comunità d’ambiente: con questa lo incontra, con questa lo richiama e gli propone, in questa lo rigenera a una mentalità nuova e lo provoca a nuova vita. Una comunità d’ambiente é perciò l’aspetto sempre contingente della Comunità totale, ma ne é di fatto il primo strumento concreto di vita, sia pur umile e provvisorio.

Non capire il valore della comunità d’ambiente é concepire in modo astratto la comunione stessa con Cristo, con la Sua Chiesa.

Non amare la comunità d’ambiente é venir meno a quella comunione, e quindi illanguidire o addirittura rendere illusoria la meta-noia cristiana.

Inversamente, la vivacità dello spirito della Chiesa m un’epoca si dimostra dal molteplice e capillare formarsi delle comunità ambientali, pratico punto di incontro dell’uomo con il Mistero Incarnato, e dalla intensità della loro autocoscienza e creatività, cosi come della loro amorosa obbedienza al Vescovo.

E certo utile ricordare che cosa sia un «ambiente». L’ambiente é, m concreto, quel complesso di realtà in cui l’individuo é immerso con una certa stabilità e che in vari modi ne incrementa lo sviluppo e ne influenza la fisionomia della personalità.

La passione di comunione, che caratterizza la coscienza cristiana, deve rendere pronti a individuare gli ambienti che più determinano gli individui di una società, e ramificare in essi la vita della Chiesa. L’individuazione di tale ambiente può variare da epoca ad epoca, o addirittura da luogo a luogo: sarebbe notevole mancanza di spirito cristiano, di carità, esaltare forme genialmente scoperte dal passato fino a rinunciare all’agilità – alla libertà! – necessaria per corrispondere a esigenze nuove.

Ci potranno essere perciò comunità d’ambiente fondamentali ieri che rimangono fondamentali oggi. Ma ieri potevano esaurire un compito, che oggi non esauriscono più, e proprio per vivere compiutamente, o addirittura per rivivere, hanno bisogno di comunione con altre incarnazioni della comunità della Chiesa.102

 3) Evidentemente la comunità d’ambiente non vive isolatamente dalle altre comunità in cui pure si esprime la presenza di quel brano essenziale della vita della Chiesa che scaturisce dal Vescovo.

Anche le varie comunità d’ambiente realizzano a loro volta la «comunione» tra di loro centrate sui Vescovi, così come tutti i Vescovi vivono la comunione tra di loro «fondati» sulla «roccia» ultima che é il Papa.

Anzi, storicamente la parola «comunione» ha indicato questa unità tra le varie comunità cristiane come il segno palese della comunione del mistero di Dio con gli uomini.

Ogni cristiano ed ogni singola comunità locale (quelle che oggi sono le diocesi e le parrocchie) sapeva di non essere la Chiesa Cattolica (la Chiesa di Dio a Gerusalemme, a Corinto, a Roma ecc.),

se non nella misura in cui stava in comunione con tutte le altre persone o comunità, membra della Chiesa. Ed ognuno sapeva che solo restando in contatto con la circolazione vitale della Chiesa intera poteva essere pienamente al suo posto, nel suo ambiente, testimone di Dio, e perciò apportatore di una ricchezza infinita.

É ben noto che questi vincoli stretti e questa intensità di circolazione, di contatti, di scambi tra le prime comunità, non rinchiusero in un circolo chiuso i Cristiani; al contrario, questa fu l’epoca dell’espansione rapida e prodigiosa.

Gli studi più recenti mettono in luce come gli Apostoli prima, ed i Vescovi loro successori poi, per la preoccupazione di conservare una vera unità di fatto nella Chiesa, abbiano lungamente resistito alla tendenza di moltiplicare le comunità locali. Così inizialmente più città, o diocesi se così si può dìre, rimasero legate ad un Apostolo; poi, per lungo tempo, le diocesi rimasero interamente accentrate attorno al Vescovo, e le «parrocchie» – nel senso moderno della parola – furono inizialmente poche. Solo con l’epoca feudale il numero delle parrocchie aumentò; ed il clero, anziché restare legato al Vescovo, restò legato alla propria Chiesa, ed al proprio pezzo di terra («benefìcio»). Tra le conseguenze spirituali, ci fu una forte diminuzione del senso della comunione ecclesiale e del contatto con la circolazione della Chiesa universale, con conseguente decadenza del clero, che tendeva ad isolarsi ed adeguarsi alle molto limitate esigenze religiose popolari.103

Non sarà inutile al riguardo leggere questo brano storico della vita della Chiesa, per rendersi meglio conto di come la «comunione» soprannaturale col mistero di Dio esiga nella Chiesa di tradursi anche socialmente.

 L’unita dell’antica Chiesa: la comunione

 Quando oggi il Papa invia solennemente una enciclica a tutta la Cristianità inizia con queste parole: «A tutti i Patriarchi, Arcivescovi, ecc.; che mantengono pace e comunione con la Sede Apostolica». Pace e comunione non sono solo termini che appaiono continuamente nell’antica letteratura cristiana, ma stanno ad indicare un concetto che merita di essere considerato come una delle chiavi per la comprensione dello spirito della Chiesa antica. Comunione nel senso usato dagli antichi cristiani é la comunità dei fedeli, dei fedeli col Vescovo, dei Vescovi tra loro, di tutti con il vertice, con Cristo. II segno visibile ed al tempo stesso la causa, per la quale questa comunità é continuamente rinnovata, é l’Eucarestia, il sacramento della «comunione». II peccatore é escluso dalla comunione eucaristica e, pertanto, dalla comunità eucaristica. II forestiero, che viene da una Chiesa lontana, é ammesso alla comunione se presenta una credenziale del suo Vescovo che provi la sua appartenenza ad una comunità ortodossa; in caso contrario, gli si nega l’Eucaristia e l’ospitalità. Quando, a metà del secondo secolo, il Vescovo Policarpo andò a Roma per trattative a proposito della data della Pasqua, non poté giungere ad un accordo col Papa Aniceto; pur tuttavia, come più tardi scriverà Ireneo a Papa Vittore, «Aniceto gli concesse l’Eucaristia nella Chiesa», vale a dire: gli permise di celebrare Messa nella comunità romana ed amministrare la Comunione al clero ed al popolo; «e così si lasciarono in pace». Con il che Ireneo vuol dire che, se anche esisteva tra i due diversità di opinione, non si alterò tra loro la comunità ecclesiastica, la pace o comunione. Qui si vede chiaramente che pace ha un significato ben distinto da quello di concordanza di opinioni o assenza di divergenze. Pace e Comunione significano un vincolo reale, che non viene necessariamente a mancare a causa di un litigio, e segno di tale vincolo reale é la celebrazione in comune della Eucarestia.In Roma, ove i presbiteri che vivevano soli alla periferia non celebravano in comune col Vescovo, ma che, almeno alla domenica, offrivano il sacrifìcio della Messa nelle chiese titolari, si perpetuò l’usanza che il Vescovo, che celebrava prima di tutti, faceva 104 portare ad ogni chiesa titolare, per mezzo di «accoliti», una particola consacrata che il presbitero poneva nel calice durante la sua celebrazione. Ricorda questa usanza, nella Messa di oggi, l’orazione «Haec commixtio et consecratio», dopo il «Pax Domini». Papa Innocenzo spiega così questa pratica: «Perché essi (i presbiteri), in questo giorno particolare, non si sentano separati dalla nostra comunione ».Nell’antichità «essere in comunione» con gli eretici significava ricevere da loro l’Eucaristia. Da qui il fatto che quando un laico partiva per un viaggio attraverso regioni dove non esistevano Chiese cattoliche, portava con sé l’Eucaristia, per non vedersi obbligato a fare la Comunione in una chiesa di eretici, il che avrebbe significato affiliarsi alla loro comunità. Quando un cristiano partiva per un viaggio, riceveva dal suo Vescovo anche una lettera di raccomandazione, una specie di salvacondotto in virtù del quale, giungendo in una comunità di fedeli, vi era accolto amichevolmente ed alloggiato. Questa istituzione, la cui origine si fa risalire all’epoca apostolica, non era solo vantaggiosa per i laici, per esempio i commercianti cristiani, ma peri Vescovi stessi. Senza gran dispendio potevano inviare messaggeri e lettere in tutte le parti dell’Impero. Solo cosi si può spiegare l’attivissima corrispondenza che i prelati sostenevano tra loro. Questi salvacondotti erano conosciuti con il nome di ‘lettere di comunione’ o ‘lettere di pace’, poiché attestavano che il viaggiatore apparteneva alla comunità e, pertanto, poteva ricevere l’Eucaristia.             LUDWIG HERTLING, Storia della Chiesa

4) Ogni comunità cristiana é innanzitutto, nei confronti delle persone che vi partecipano, un luogo educativo, perché la comunione col Mistero di Dio é qualcosa di ben grande cui l’uomo deve continuamente essere richiamato, adattato e sviluppato: «erunt omnes docibiles Dei», saranno tutti come gli scolari di Dio. Quella comunione misteriosa é una vita, una vita che deve continuamente essere fatta crescere.

La Rivelazione conosce una fondamentale regola per l’educazione dell’uomo alla salvezza nella comunità cristiana: «Seguimi».

Non c’é altra strada, non c’é sforzo intellettuale né scaltrezza che abbia il valore di questa direttiva: «Voi investigate le Scritture perché credete di avere per esse la vita eterna: e son proprio quelle che parlano in favore mio. Eppure non volete venire a me per avere la vita» {Gv 5,39-40). Andare a Cristo per avere la vita non è 105 costruire ragionamenti, ma eseguire ciò attraverso cui Egli ci richiama. Solo attraverso questo mezzo potremo compiere la verifica del richiamo cristiano e accorgerci che il fine di tutto é veramente il Regno di Dio: «Siccome il mondo con la sua sapienza non ha conosciuto Dio, nella sua sapienza piacque a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione» (i Cor 1,21). Cercare di fare da sé, tentare quasi di convocare le proposte di Dio al tribunale di criteri autonomi, sarebbe la vanità più grossa: sarebbe il peccato di Lucifero, che pretese il significato della sua persona da sé.

Il comportamento della Chiesa risulta una sorprendente conferma di questa grande norma. Essa, per esempio, ci obbliga ad un’unica cosa nella settimana: la Messa festiva. Sembrerebbe il gesto meno personale fra tutti: ma é attraverso questo «fare come gli altri» che la Chiesa ci conduce a Dio. Del resto la trama della preghiera, nelle ore quotidiane, é costituita proprio dal salmo 118 che é tutto un grido a seguire la «legge», Dio: «Felici quelli che seguono una via immacolata e camminano secondo la legge del Signore» (Sal 118, i nell’ora di Prima). «Mi rendi più saggio dei vecchi, perché medito la tua parola» (Sal 118,99 nell’ora di Sesta).

Per esprimere il concetto del seguire, San Paolo usa spesso la parola obbedienza. Obbedienza vuol dire abbandonare sé per seguire un Altro, e l’obbedienza é l’unico vero sacrificio, perché sacrificio cristianamente parlando non é necessariamente dolore o rinuncia, ma identificare la propria volontà con quella di un Altro, di Dio.

Ed é proprio questa legge della obbedienza che ci rende grandi e felici, e che ci fa avere «il centuplo ora, in questo tempo» (Mc 10,30).

In ogni comunità cristiana l’autorità costituita é la funzione di guida, che prolunga la missione di Capo che ha Cristo. Questo vale per la realizzazione della comunità cristiana a qualunque livello.

Lo spirito d’obbedienza intelligente e fedele alla autorità segna in una comunità cristiana la profondità e la stabilità della «comunione».

D’altra parte la potenza di Dio é liberissima nello scegliere i modi delle sue ispirazioni e delle sue meraviglie: anche dalla bocca dei bambini sa trarre vera lode, e può rendere il giovane più saggio del vecchio, poiché lo «Spirito soffia dove vuole». Sarà perciò compito di una autorità, che viva essa per prima la «comunione», saper valorizzare tutto il gratuito, imprevedibile scaturire dei doni 106 dello Spirito nella comunità. Ma anche un carisma «edifica» la comunità solo nella misura in cui é vissuto in comunione con l’autorità istituzionale.

Seguire non vuol dire copiare meccanicamente. Esso é un fenomeno umano, vissuto nella tua persona. Le energie che caratterizzano la tua persona sono l’intelligenza e la volontà: quindi non è vero seguire se non e impegno dell’intelligenza e della libertà. Perciò:

- seguire non é atteggiamento ottuso, incosciente. Il seguire deve essere uno sforzo cordiale di immedesimazione coi motivi di ciò che ci viene proposto, di comprensione dei valori impliciti nei suggerimenti offerti. E seguendo con gli occhi spalancati, con attenzione viva, che si capisce e si impara, cioé ci si ingrandisce nello spirito;

- seguire non é essere trasportati da una corrente, ma é una decisione mia, é un gesto continuo della mia libertà. Per questo la tradizione cristiana ci consiglia di dire ogni giorno la preghiera del mattino: per riprendere la decisione cosciente di seguire Dio.

«Fortunati nella loro vita quelli che seguono le vie del Signore» diciamo nell’ora di Prima.

Se ti riduci a un’obbedienza passiva, non é vera obbedienza.

Occorre che l’obbedienza implichi l’adesione di tutto se stessi, con tutte le proprie capacità di vita.

 Una comunità d’ambiente decisiva

 1) C’é un momento naturale nella vita dell’uomo in cui l’educazione della consapevolezza e della volontà ha un significato cosi acuto e radicale quasi come la nascita rispetto a tutta la vita: é il momento in cui «ambiente» dell’individuo diventa tutto un complesso totalmente nuovo di rapporti con il « mondo », nuovo e per vastità e per consapevolezza e per iniziale vera libertà. Tale «ambiente» non coincide evidentemente con un «luogo» nel senso materiale della parola: assai più che un luogo é un ambito, cioè tutto un modo di vivere, una trama di condizioni della esistenza.

Pure, nella società attuale tale ambito di vita ha il suo fulcro proprio in un luogo materiale, fisico, che diventa come il punto di riferimento o il crocevia obbligato di tutto quell’insorgere di rapporti e il conseguente prorompere di idee e di sentimenti.

II momento della vita cui stiamo pensando é naturalmente quello 107 dell’adolescenza e della giovinezza. I luoghi di riferimento sono la scuola e, secondo proporzioni diverse, il lavoro. Sono proprio questi luoghi a prestare il nome all’ambiente così importante per tutta la vita dell’uomo.

E sono questi luoghi a dare il nome alla comunità cristiana che deve diventare presente in quell’ambiente. Come l’adolescenza e la giovinezza sono il momento più decisivo per una adeguata impostazione della coscienza dell’uomo nella vita, cosi le Comunità cristiane d’ambiente giovanile costituiscono un importante strumento educativo della Chiesa in quel decisivo momento.

2) Cerchiamo di renderci meglio consapevoli del significato di questi strumenti educativi della Chiesa osservando la situazione sociale in cui si originano alcuni di essi.

Dalla tradizione alla convinzione. La civiltà in cui ci troviamo a vivere é tutta imbevuta di tradizione cristiana. Gli stessi avversari della Chiesa hanno questa tradizione immanente alla struttura della loro persona, perché nascono da un suolo che da duemila anni é tutto impregnato di cristianesimo.

Noi non possiamo perciò prescindere da questa tradizione che fa parte cosi intimamente della nostra natura, anche se il nostro spirito é libero di rinnegarla. E in essa che i nostri genitori ci immettono facendoci nascere: essa é alla nostra origine e alla base della nostra educazione.

Ma come dobbiamo fare perché questa tradizione non rimanga in un angolo oscuro della nostra coscienza, inespressa e non chiara nel suo significato? Come possiamo fare perché la nostra vita non si esaurisca senza svelare ciò che di più affascinante ha?

La tradizione ci é data come un seme che deve maturare e identificarsi con tutta la nostra persona. E proprio attraverso questa maturazione che avviene il passaggio dalla «tradizione» inconsapevolmente accettata alla «convinzione».

Quando comincia ad emergere lo spirito critico, l’esigenza di sapere e decidere, la consapevolezza della propria personalità irriducibile a qualsiasi altra, bisogna che si possa sperimentare quello che ci hanno dato come capace di farci vivere più profondamente tutti gli aspetti della vita. Occorre che si metta a paragone ciò che famiglia e parrocchia hanno dato con tutto quello che ci circonda, e in questo confronto si cerchi di vedere come il cristianesimo si 108 comporta. Scoprendo che il cristianesimo ci fa vivere le cose molto più completamente e intensamente degli altri, ci si dispone a convincerci che é vero, che esso é vera risposta alla nostra natura d’uomini.

Non si può convincersi del cristianesimo studiandolo solo astrattamente come una teoria qualsiasi: ci si può convincere che é vero solamente confrontandolo con tutta la propria esperienza di vita e verificando che risponde a tutti i problemi (e quanto più si cre-sce, tanto più questi interessano).

Ma occorre che ci sia qualcuno ad aiutarci a fare questo confronto, nel momento in cui più se ne ha l’urgenza. C’é una particolare età in cui l’uomo ha l’agilità necessaria per rendere esperienza viva la ricchezza ideologica della tradizione: é l’età dopo i quattordici anni, in cui il ragazzo si apre a mille interessi e problemi. Se in questo periodo il ragazzo non é aiutato a capire come l’idea cristiana é capace di chiarire i suoi interessi e di dare un senso a ciascuno di essi, egli perderà forse per sempre questa possibilità.

Scuola ed educazione cristiana. Secondo il concetto di educazione cattolico, proprio la scuola dovrebbe essere uno tra gli strumenti principali per compiere la verifica tra la tradizione e lo scibile, per aiutare a interpretare dal punto di vista cristiano tutto questo mondo nel quale il ragazzo é chiamato ad entrare.

Libera scuola é quella nella quale il ragazzo sia aiutato a provare quei valori in cui i genitori lo hanno fatto nascere.

É questo il concetto di scuola «pluralistica», che non implica affatto uno sviluppo limitato e chiuso della coscienza, imprigionata da paraocchi: infatti solo la consapevolezza matura della propria idea può renderci capaci di vera apertura, di vero dialogo, e perciò di vera democrazia; ed é per questo che insistiamo sulla priorità dell’educazione cristiana prima di qualsiasi altra preoccupazione e impegno.

La scuola oggi. La scuola com’é oggi non corrisponde a questo concetto cristiano di educazione. Le stesse lezioni di religione rimangono una parentesi estranea al resto. La neutralità della scuola di oggi implica una impostazione indifferentistica circa il significato della vita e il senso ultimo degli argomenti di studio. Succede anche che metta il ragazzo di fronte a molteplici soluzioni, senza che egli abbia vera capacità critica di fronte ad esse. Il risultato più normale di tale educazione é per il ragazzo un fondo di scetticismo 109 su tutti i problemi più importanti dell’uomo, se non il rifiuto a priori di considerare tali problemi, oppure la facilità a diventar ostile alla propria tradizione originale.

Ma modificare le strutture della scuola è un compito che toccherà a coloro che hanno determinate funzioni nella società; e lo faranno secondo discrezione e sereno dialogo. Al giovane tocca, con rispetto della convivenza democratica, mobilitare il suo spirito perché, diventato adulto, possa cooperare all’avvento di situazioni più aderenti ai suoi ideali cristiani. Il giovane non può mai essere contro la scuola e contro i suoi insegnanti: egli però deve avvertire un’esigenza. E un fatto che, se uno studente si trova veramente impegnato con il Cristianesimo e la vita della Chiesa, si trova facilmente a disagio nella scuola. Ciò che si deve volere non é certo impedire ai professori di dire le cose secondo la loro concezione,

ma che essi non facciano della loro cattedra uno spunto di continuo attacco alla Chiesa, un pretesto per tentare di sgretolare la coscienza anche di un solo ragazzo; si deve chiedere che essi non esulino dai loro compiti didattici.

Ora, se la scuola non aiuta in quel lavoro di paragone tra la tradizione e le materie di studio, dove si potrà farlo?

Attraverso una struttura cmtiana generata dal libero impegno delle persone interessate. Questo é il primo valore educativo della comunità cristiana di scuola: aiutare a compiere quel paragone che l’ambiente non fa.

Si capisce quanta importanza abbia il tempo libero del giovane, intendendo per tempo libero tutto lo spazio in cui l’iniziativa e l’impegno creativo possono esprimersi secondo coscienza e volontà non impedite da impostazioni di vita obbligatorie.

In tale senso la comunità cristiana d’ambiente é tanto più possibile e florida quanto più il valore della libertà é salvato e favorito nella vita sociale. E un grave pericolo per questa libertà il tentativo, per esempio, che si sta facendo di rendere istituto normale le «associazioni scolastiche», di qualificarle cioè come effettivamente rappresentative di tutti gli studenti o comunque ufficiali per la scuola. Esse prolungherebbero nel tempo libero il tipo di educazione della scuola come é oggi, attirando i ragazzi con la prospettiva di «mettere insieme tutte le idee ed educare alla democrazia». In realtà in esse avviene una convivenza (quando non sia scontro) tra ragazzi ideologicamente non preparati; perciò le associazioni scolastiche finiscono per fare il gioco di idee non cristiane, 110 o addirittura di certa propaganda politica, che si avvale dell’equivoco per affermarsi. Un ragazzo che si metta a discutere prima di maturare nella propria idea normalmente viene sopraffatto, o rimane cattolico per conformismo, oppure infine tratta la propria fede come una idea accanto alle altre, o la difende per partito preso.

E necessario invece approfondire la propria idea in un movimento qualificato prima di politicizzare la propria posizione.

Noi vogliamo perciò che ci sia lasciato lo spazio per questo approfondimento, il quale soltanto può generare una maturità tale da permetterci un dialogo con gli altri: il nostro é desiderio di sicura e valida democrazia.

E necessaria agli studenti cristiani una comunità, che si proponga come luogo di questo impegno di coscienza, di cultura, di vita, cui é legato il destino della tradizione cristiana in loro stessi e nella società.

Essa perciò chiede a loro la precedenza nell’impiego del loro tempo libero (già cosi poco), e agli istituti scolastici una perfetta eguaglianza di diritto di presenza con le altre forme associative scolastiche: perché se queste sono basate su una preoccupazione educativa diversa dalla nostra, la libertà democratica deve essere identica per tutti.

 3) Situiamo ora queste comunità giovanili nell’ambito della grande comunità cristiana e precisiamone i rapporti con le principali strutture della Chiesa. Esse, ricordiamolo, vogliono essere un movimento educativo, uno strumento per lo sviluppo intelligente del nostro cristianesimo e per la maturazione della nostra libertà in esso. Sono uno strumento di passaggio, un tratto provvisorio di quella strada che ognuno deve percorrere per andare verso il regno di Dio. Dal modo con cui si vive questo momento dipende tutta l’impostazione della vita avvenire. C’é una disponibilità alle cose cristiane, una intelligenza delle cose cristiane che non si può imparare se non in questa età, tra i quindici e i venti anni. Le comunità giovanili d’ambiente sono perciò uno strumento estremamente importante, però sono solo uno strumento e un momento in un contesto piu grande. Se noi creassimo la nostra comunità giovanile di oggi con lo scopo di rimaner sempre in questo ambito, ci proporremmo un ideale bloccato, chiuso. Noi insistiamo sul nostro lavoro di oggi perché urge la preoccupazione di essere preparati 111 al lavoro di domani. Ognuno di noi domani dovrà rappresentare una funzione particolare nella vita della Chiesa; ognuno prenderà la sua strada secondo la propria vocazione, nel suo ambito e secondo le proprie capacità, come hanno già fatto tanti di noi. Dobbiamo precisare dunque con chiarezza che la comunità d’ambiente é uno strumento, importantissimo, ma strumento. Questa precisazione, mentre stabilisce la consapevolezza dei limiti del nostro agire, nello stesso tempo ci spinge ad usare di questa enorme grazia che ci vien data, con tutta l’anima e con tutte le nostre forze. «Renderete conto di ogni istante perso» (Mt 12,36).

Uno strumento: ma strumento di chi e per che cosa? Questo strumento appartiene alla vita grande della Chiesa, al mistero di Dio nel mondo, del quale noi facciamo parte. Per questo noi non ci sentiamo neanche un filo differenti da quelli di noi che sono in Brasile o in seminario o in convento, o che hanno già fatto famiglia: siamo la stessa identica cosa; apparteniamo tutti al mistero di Dio nel mondo, alla Chiesa. Non é la comunità d’ambiente la Chiesa, ma la comunità d’ambiente appartiene alla Chiesa, é uno strumento con cui la Chiesa forma noi alla coscienza del mistero del Corpo Mistico di Cristo.

Ora, la comunità della Chiesa universale, che é così più grande di noi, chi la governa, chi la può guidare autenticamente? Forse chi é profondo in teologia, chi é particolarmente colto o scaltro?

No. Chi dirige questa comunità secondo il mistero della saggezza di Dio é l’autorità: i Vescovi e il Papa.

Perciò la comunità d’ambiente sarà strumento educativo al senso della Chiesa quanto più cercherà di aderire al suo Vescovo.

Questa sarà la prima condizione perché un movimento sia aderente al Regno di Dio, e non a idee e disegni particolari e limitati.

Se ci abbandoniamo a nostri criteri e misure, non ci educhiamo con sicurezza al Regno di Dio, perché il Regno di Dio é mistero.

E un mistero così concreto che ancora é crocifisso, crocifisso coloro che ne fanno parte.

Un cristianesimo filtrato dalla nostra saggezza, ridotto a noi, porta all’equivoco e non alla testimonianza, genera compromesso con gli avversari e non vittoria della nostra fede. Non si può annacquare il vino di Dio con l’acqua dei suoi avversari. Non si afferma il cristianesimo sottacendo gli aspetti della sua verità. Amare gli «altri» non é dimenticare ciò che ci distingue da loro per cercare punti di accordo. Non ameremmo gli altri se innanzitutto noi non 112 portassimo loro la realtà per cui noi non siamo come gli altri, la realtà cioé che ci viene da Cristo.

Ma da Cristo questa realtà nuova ci viene solo in unione col Vescovo. Per questo dobbiamo essere fedeli al Vescovo al di là di qualsiasi diplomazia e scaltrezza: perché solo seguendo lui possiamo essere sicuri di portare al mondo Cristo e non qualche idea fabbricata da noi.La direttiva fondamentale del nostro movimento deve perciò essere quella di fedeltà e adesione profonda alla mentalità e alla sensibilità del proprio Vescovo. II Signore non ha creato alcun movimento, alcuna associazione particolare: ha creato i Vescovi.

Sant’Ignazio di Antiochia scrive m una delle sue potenti, vivissime epistole che il cristiano deve aderire al Vescovo «come a Cristo». Noi apparteniamo a quell’unico vero universalismo che é la Chiesa solo se siamo legati a quel padre che ci genera alla vita cristiana, a quell’uomo attraverso il quale unicamente passa la vita che ci rigenera: il Vescovo.

Si chiama «diocesi» quel brano autentico di Chiesa universale che é proprio del Vescovo’. Perciò la prima direttiva del nostro movimento deve essere l’integrazione profonda alla vita della Diocesi.

1 Vescovi animano la vita della loro diocesi affidandone singole zone a dei collaboratori, i sacerdoti: nasce così la parrocchia (dal greco «parà oichia», vicino alla casa). Dal momento che i Vescovi insistono su questa struttura, dobbiamo portarle profonda fedeltà e indirizzare verso di essa i risultati ultimi del nostro lavoro comune.

Ma perché la Chiesa pone in ogni luogo il Vescovo e i suoi parroci? Perché per educare al cristianesimo occorre che la voce cristiana raggiunga l’uomo nel suo ambiente. E la parrocchia é appunto l’ambiente delle famiglie normalmente fondamentali per la vita dell’uomo.

Ma, ai fini della formazione di un individuo, «ambiente» é quel luogo di rapporti che di fatto più influisce e determina l’evoluzione dell’individuo stesso, specialmente come mentalità e sensibilità.

Ora, c’é un periodo nella vita del giovane – come abbiamo già detto – in cui gli fa più impressione quel che vede attorno che quel che gli dicevano da piccolo a casa. L’ambiente della casa rimane sempre il fattore originale, ma é un altro l’ambiente che più lo influenza ormai: é l’ambiente della scuola e del lavoro, la televisione, il cinema, ciò che c’é di più collettivo. La nostra società usa questi strumenti in un modo terribilmente invadente, per cui a una 113 certa età il legame alla propria casa e alla parrocchia viene battuto in breccia da una concorrenza molto più forte. Allora la Chiesa é costretta a desiderare che i giovani siano raggiunti dalla potenza del suo aiuto proprio là dove il mondo coi suoi mezzi collettivi penetra più facilmente nel cervello e nel cuore. Occorre perciò che anche negli ambienti frequentati dal ragazzo tra i quindici e i vent’anni, la scuola e il lavoro, la comunità della Chiesa trovi presenza ed espansione.

Normalmente, la parrocchia non dispone di un metodo sufficiente per contrastare l’influsso delle componenti sociali non cristiane dell’ambiente della scuola e del lavoro: é questo invece il compito e il valore delle comunità studentesche e di lavoratori.

II più grosso problema alla nostra età é quello di sentire veramente un richiamo alla Chiesa e di educarci in esso. Ma un’azione che vuol essere educativa deve tener conto della situazione dell’individuo da educare; deve cioé investirlo là dove più é impressionato, dove maggiormente subisce influssi, negli ambienti che frequenta. E per questo occorre una agilità di spirito che sappia anche mutare per un po’ metodi e forme pur cosi utili in tempi diversi. «Non é l’uomo per la legge, ma e la legge per l’uomo».

Come i genitori sanno che non possono pretendere dal ragazzo di diciassette anni ciò che esigevano da lui quando ne aveva sette, e lo lasciano perciò più libero, perché possa rimanere tra loro e lui un contatto vero, analogamente anche la parrocchia, cui al fondo siamo sempre legati, deve saper all’occasione diventare più larga nei suoi rapporti con noi.

Il movimento d’ambiente non é perciò affatto in contrasto con quella struttura originale che é la parrocchia. Anzi vuol essere lo strumento per salvare i germi cristiani da essa trasmessi nei ragazzi, vuol essere il tentativo di recuperare i giovani che essa non riesce più a impegnare in una riscoperta viva del cristianesimo.

Quanto più cresceremo ora nella fedeltà al mistero di Dio nel mondo, tanto più, fatti maturi, riprenderemo il nostro posto nelle strutture antiche. Noi ripetiamo ben chiaro a noi stessi e a tutti che nostra preoccupazione é quella di integrarci profondamente in tutte le forme della vita cattolica della nostra terra. Ciò che crea e giustifica la nostra solidarietà e la nostra comunità particolare di ora é la possibilità e la realtà di un richiamo e di un aiuto più aderente ed effìcace per una educazione a chiarezza, a intensità, a fedeltà e a sacrificio cristiano per noi giovani. La comunità d’ambiente é solo questo.114

 La prima espressione della comunione: la preghiera

 Ogni uomo vive un atteggiamento religioso di fondo perché l’uomo é fatto per un significato esauriente della vita. Non esiste una sola azione che possiamo compiere senza implicare, magari inconsciamente, magari contro le nostre stesse convinzioni teoriche, il significato ultimo delle cose. Questa affermazione magari inconscia del significato ultimo della vita si chiama senso religioso, in quanto nasce dall’evidenza più elementare e grandiosa che l’uomo possa avere: l’evidenza cioè che quel significato ultimo é «più» di noi e noi ne dipendiamo totalmente. II senso religioso per sua stessa natura é l’anima di tutti gli altri interessi, proprio in quanto tutti gli interessi ci muovono al fine della nostra felicità, del nostro destino, cioè del nostro significato ultimo.

La misura di tutto non sono io: é un «Altro». E per questo la vita consiste nel vivere un Altro, nell’affermare un Altro. I Greci parlavano di fato, gli stoici di «necessità», i cristiani parlano di «Provvidenza». Ma al di sotto di ogni differenza é in tutti la consapevolezza precisa di questa che é la realtà più grandiosamente evidente: il fatto che dipendiamo.

Ci sono gesti che come tali tendono a sviluppare in noi questo senso di dipendenza, gesti che esprimono direttamente – poiché esprimersi é legge della natura – questa consapevolezza.

Tutta l’attività di questi gesti si può chiamare con parola comprensiva «preghiera».

La preghiera rappresenta il dinamismo essenziale generato dalla vita della comunità cristiana, ed é fondamentalmente attraverso di essa che lo Spirito di comunione penetra fino a trasformare la mentalità dell’uomo (così la preghiera é la prima espressione di obbedienza e quindi costituisce la vera «penitenza»).

 1) Come espressione consapevole del senso religioso, l’abbiamo già accennato, essa parte dall’accorgersi che la nostra vita non è fatta da noi, che un Altro é gratuitamente, istante per istante, sorgente di essa. La nascita é solo il segno più clamoroso di una condizione permanente di tutta l’esistenza: «Siamo fatti». Quella Sorgente che é più me di me stesso, alla quale non posso pensare senza 115 tremore ed attrattiva, questo mistero che mi fa ed é infinitamente prima di me, é Dio.

La preghiera riconosce tutto questo. E la sua espressione migliore dice: «Padre nostro». «Tam Pater nemo»: «nessuno é così Padre», perché se nostro padre ha dato l’avvio di un momento alla nostra vita, Dio ci fa essere continuamente, e noi siamo di Lui infinitamente più di quanto siamo di nostro padre e di nostra madre. Diceva San Paolo ripetendo le parole di un poeta greco, Arato: «In Lui viviamo, ci muoviamo e siamo». Dio é la radice di me: «Padre nostro, che sei nei cieli», cioè nel nostro profondo.

Questo ci porta ad una meravigliosa, rivoluzionaria scoperta:

che io sono continuamente voluto, cioè amato, da Dio; che esistere é essere amati da Dio.

2) Ma il gesto creativo di Dio pone l’uomo in una inesauribile tensione a ciò che con termine filosofico chiamiamo «perfezione», con termine psicologico chiamiamo «felicità». Dio ci spinge su una strada da cui non possiamo toglierci: tanto che il dire «no» coscientemente a questa irresistibile dimensione del nostro essere porta a quella tremenda spaccatura dell’uomo che é sulla terra la disperazione e nell’eternità l’inferno, l’eterno rifiuto di una felicità fatta per noi. É tanto vera questa legge del nostro essere che noi non facciamo niente, restiamo psicologicamente inerti, se non siamo mossi dal desiderio.

Non é vera consapevolezza di sé, non é vera preghiera se non coincide con la domanda di essere più perfetti e quindi più felici.

Gesù ci ha suggerito: «Padre nostro… venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà». Infatti la nostra perfezione e felicità è Suo Regno e Sua volontà.

É superficialità, mancanza di intelligenza umana quella che riguarda la preghiera come atteggiamento vile o la domanda come una debolezza. É esigenza implicata dalla nostra natura il chiedere la perfezione e la felicità: e poiché l’uomo é essenziale dipendenza, ogni altro atteggiamento sarebbe stolida presunzione, o vano orgoglio.

Proprio perché la trama delle nostre azioni costituisce il nostro tentato cammino verso la felicità, la preghiera, ridestando continuamente l’intelligenza della strada vera a questa felicità deve tendere a diventare una dimensione costante dell’uomo in azione.

«Bisogna pregare sempre», disse Gesù.116

 3) Proprio per questo occorre «moltiplicare i gesti» di preghiera, che non esauriscono il nostro atteggiamento religioso, ma ci educano a quella maturità di sguardo su tutte le cose cui esso tende.

Moltiplicare i gesti: perché é legge del nostro animo che solo moltiplicando gli atti ne assimiliamo lo spirito.

Gesù Cristo stesso ha creato gesti di preghiera che generano nell’uomo quella comunione col suo mistero, e quindi quella partecipazione stessa al mistero di Dio che é lò scopo della storia umana.

Questi gesti sono essenzialmente atti di Cristo nel suo Corpo mistico; quindi atti della sua comunità come tale e nello stesso tempo costitutivi, creativi della comunità. Sono i «Sacramenti» i gesti attraverso cui Cristo diffonde il suo mistero nel mondo (i Sacramenti si chiamano anche «Misteri»).

La Chiesa attraverso la liturgia valorizza educativamente i «misteri» di Cristo dilatandoli ad investire tutta la giornata dell’uomo. Ecco il valore del Breviario, delle «Ore».

Ma innumerevoli sono le forme che lo spirito religioso sa trovare o adottare per esprimersi ed alimentarsi: da quelle più immediatamente contemplative (meditazione), a quelle umilmente litaniche (il Santo Rosario), a quelle impetuose o dolci come un breve grido dell’anima (giaculatorie).

APPUNTI DI METODO CRISTIANO Missione 117

 La missione

 1) Il mistero di Dio coinvolge l’intero universo, e la sua comunione urge ad una unità imprevedibile all’umana ragione. «Tutto é vostro, voi di Cristo, Cristo di Dio».

Gesù Cristo é stato mandato per «riassumere tutto» in sé e perciò siamo ormai sicuri di essere tutti una cosa sola: «Non c’é più schiavo né libero, greco o barbaro, uomo o donna; tutti siamo una cosa sola in Gesù Cristo» (Gal 3,28).

Ma nella storia questa verità non é ancora totalmente espressa e realizzata. Per questo ognuno che partecipi alla «comunione» della Chiesa partecipa anche della «missione» di Cristo. La tensione ad abbracciare tutto il mondo é in proporzione esatta con la verità della «comunione» con Cristo e la Chiesa, e perciò del proprio cristianesimo. Così la presenza di quella tensione segna la verità o intensità della «comunione» nell’ambito della comunità cristiana.

La forza missionaria della Chiesa é innanzitutto nella potenza della sua unità e del fascino che ne fa sentire all’intorno. Il suo slancio «a testimoniare fino ai confini del mondo» viene molto più dall’interno che da una necessità o da un appello esteriore. É certo venuta l’ora di capire che se non si vive in questa dimensione missionaria chi rischia di perdersi sono innanzitutto i cristiani, prima di parlare della dannazione degli «infedeli»: «se in Tiro e in Sidone fossero stati fatti i miracoli compiuti in mezzo a voi, avrebbero già fatto da molto tempo penitenza in cenere e in cilicio»  (Mt 11,21).

In ogni caso, nella misura in cui una persona o una comunità cristiana non sono aperte alla comunione viva con gli altri cristiani, e, attraverso questa, con tutti gli uomini, si privano anche della possibilità  118 di realizzare la propria personalità, di essere pienamente ed autenticamente «cattoliche»; si impoveriscono e riflettono una immagine meschina dell’«insondabile ricchezza» del mistero di Dio.

Ma occorre insistere che l’universalità non é altro che lo spazio cui é destinata quella comunione che é essenza del cristianesimo e che si genera nell’individuo attraverso la sua partecipazione alla comunità della Chiesa: l’universalità é il dilatarsi della comunione fra noi. Per «andare in missione» non si tratta di insistere in primo luogo sul fatto che in un determinato ambiente ci sono dei bisogni (ignoranza, miseria ecc.); si tratta invece di farsi interamente partecipi della comunità cristiana del luogo, e perciò condividerne aspirazioni e necessità. In questo caso, se cioé si apparirà davvero in «comunione», incorporati vitalmente nella comunità locale, allora l’essere umanamente degli «stranieri» non farà che risaltare meglio l’universalità del cristianesimo e la forza della Carità, la quale crea un vincolo di totale unità fra persone che mentalità diverse e sentimenti nazionalistici terrebbero ordinariamente divise e lontane.

E da osservare che questa comunione missionaria é anche condizione perché ci sia un arricchimento per le comunità di origine, per le basi di partenza di coloro che «vanno in missione». Il loro allontanamento sarebbe solo una perdita ed un impoverimento, e non un arricchimento, se non mettesse in contatto con la vita di altre membra della Chiesa, se non fosse principio di uno scambio. È un grave sintomo della perdita del senso del cristianesimo come «comunione» quello di sentire tante persone – anche responsabili – ritenere una perdita di energie il «mandare» taluni in altri luoghi.

Non sembra conforme a un ben inteso senso cristiano il dire: «C’è bisogno qui, perché andare là?».

 2) La Missione é il modo originale di dialogo dei cristiani. Quel che é definitivo non sono le differenze ma l’unità.

Già ora é possibile costruire passo passo l’unità, entrando in dialogo con gli altri, con ognuno, nella speranza che cambi: rispettare le differenze non va confuso con l’assenza di speranza che si possa arrivare all’unità con l’altro, che l’altro possa vivere la nostra vita, che a ognuno si riveli la vita nuova.

La proposta di unità deve essere instancabile quanto paziente nella devozione con cui si aderisce alla personalità dell’altro.

La storia della Chiesa é storia della costruzione dell’unità, fatta 119 di capacità di valorizzazione del positivo di dialogo. Basti pensare all’incontro fra il cristianesimo e le varie civiltà, alla ricchezza e alla suggestività delle forme liturgiche.

Tutto é pronto per essere assunto nell’ambito della Chiesa. Cosi ha scritto un ragazzo che la sua comunità ha mandato in Brasile:

«Sento bisogno di Chiesa esplicita, non mi basta pensare alla Comunione dei Santi, o meglio rischia di diventare un pensiero fantasma di fronte al mare di gente che incontro per le strade ogni giorno.

Se la storia non é una farsa, questa realtà reclama la sua espressione di Chiesa, la sua maturità storica di Chiesa». L’affermazione finale può essere solo il desiderio di vedere la Chiesa espressa, l’unità costruita che si muove nella storia.

Tale desiderio attivo, perciò la «missione», inizia con la stessa vita della comunità cristiana nel suo ambiente. II dialogo instancabile con i compagni nasce dalla certezza iniziale di un comune destino che ci unisce e dal desiderio quindi di esprimere visibilmente l’unità vera nell’ambiente. Ci vorrà certo pazienza, perché questa evidenza sarà solo alla fine. Ma dobbiamo ripetere con tutti il cammino verso l’unità perché sappiamo che anche l’altro é chiamato a partecipare a questo disegno. E il dialogo si allargherà dal proprio ambiente ad un altro e poi ad un altro ancora, in un cerchio di interesse sempre più vasto, verso uno spazio di comunione e un ambito di carità sempre più grande: così dalla propria scuola a tutto il mondo studentesco, dal proprio posto di lavoro a tutto il mondo del lavoro, dalla città alla periferia, alla campagna, dalla propria regione all’altra più lontana, dalla propria nazione alle altre.

Ma l’adeguato ambiente della nostra presenza é il mondo. Se la «missione» inizia con l’ambiente più vicino, la sua tensione è universale: l’unità non é autentica se non é aperta a tutti. Scopo della missione é l’unità totale. Non esiste motivo per escludere qualcuno o qualcosa: scoprire l’altro vuol dire, all’origine, scoprire tutti gli altri. «Mi son fatto tutto a tutti» (i Cor 9,22). Per questo in ogni comunità cristiana di autentico spirito ci sono sempre alcuni – almeno – che scelgono di ripetere il gesto di Incarnazione di Dio in maniera unica ed esemplare, si assumono il sacrificio di rinascere in un altro ambito: soprattutto attraverso questi amici continua la storia di unità della Chiesa. Con loro tutta la comunità si muove nella prospettiva dell’unità definitivamente, perché la loro presenza nel paese lontano é una realtà. Quel che avviene nel paese lontano é, per chi é rimasto nella comunità di origine, profezia di 120 unità. E coloro che sono andati vivono dentro di loro tale profezia: «Siamo diventati miracolo a noi stessi», hanno scritto alcuni.

Seguire il cammino che essi ci indicano significa lasciare che tale unità nasca dentro di noi; che la nostra mentalità ed i nostri interessi si identifichino con quelli della Chiesa «Cattolica».

 Democrazia

Condizione per sviluppare socialmente una comunione missionaria, ma anche già embrionale espressione di essa, é il valore della democrazia.

 1) L’ideale della democrazia sorge normalmente come esigenza di rapporti esatti, giusti fra persone e gruppi. Più particolarmente, punto di partenza per una vera democrazia é l’esigenza naturale umana che la convivenza aiuti l’affermazione della persona, che i rapporti «sociali» non ostacolino la personalità nella sua crescita.

Principio della democrazia é quindi il senso dell’uomo «in quanto é», é la considerazione, il rispetto e l’affermazione dell’uomo «perché é».

Nel suo spirito la democrazia non é innanzitutto una tecnica sociale, un determinato meccanismo di rapporti esterni; la tentazione é quella di ridurre la convivenza democratica a puro fatto di ordine esteriore o di maniera. In tale caso il rispetto per l’altro tende a coincidere con una fondamentale indifferenza per lui.

Lo spirito di una autentica democrazia invece mobilita l’atteggiamento di ognuno in un rispetto attivo verso l’altro, in una corrispondenza che tende ad affermare l’altro nei suoi valori e nella sua libertà. Si potrebbe chiamare «dialogo» questo modo di rapporto tra gli uomini che la democrazia tende ad instaurare.

II dialogo come metodo di convivenza evidentemente si radica e si qualifica in una «ideologia», in un determinato modo di concepire sé, gli uomini e il mondo; non si può separare la volontà di dialogo dal determinato tipo di sensibilità e di concezione che si vivono.

Anche il più sincero democratico soffre perciò la tentazione di tenere come criterio reale della convivenza il trionfo del suo modo di concepire l’uomo e il mondo.121

Ora, rendere questo non speranza, ma motivo e criterio dei rapporti, é violenza, é la violenza del tentato trionfo di una ideologia, che elimina l’affermazione del singolo uomo libero.

Lo sforzo di creare, per esempio, delle Internazionali, o il voler creare a tutti i costi una omogeneità «lasciando da parte ciò che ci divide», può avere commovente spunto, ma sempre, di fatto, finisce per schiacciare la persona in nome di una idea matrice o di una bandiera.

Bisogna che il criterio della convivenza umana sia l’affermazione dell’uomo «in quanto é»: allora l’ideale concreto della società terrestre sarà l’affermazione di una «comunione» tra le diverse libertà ideologicamente impegnate.

II contratto che regola la vita comune («Costituzione») deve cercare di dare norme sempre più perfette che assicurino ed educhino gli uomini alla convivenza come comunione.

 2) II cristiano é particolarmente disposto e sensibile a questo valore: proprio perché esso é educato ad affermare come unica legge della esistenza la carità, per cui ideale di ogni azione é la comunione con l’altro e l’affermazione della sua realtà «perché é».

Ma solo nella carità cristiana questa affermazione trova la sua sicurezza, in quanto nella carità cristiana diventa noto il motivo ultimo di quel rispetto attivo verso gli uomini. Il motivo ultimo non può essere solo il fatto che «un uomo é un uomo», il motivo ultimo del mio rispetto all’altro deve essere qualcosa che c’entri con la mia origine e il mio destino, il mio bene, la mia salvezza, deve essere qualcosa che supremamente corrisponda al mio fine:

che possa entrare in comunione definitiva con me.

Il motivo ultimo é il Mistero di Dio, nella Sua essenza (Trinità) e nella sua manifestazione storica («Regno di Dio»). Devo rispettare attivamente l’altro (amare), perché, cosl come é, appartiene al mistero del Regno di Dio; devo accostarmi all’altro quasi con la stessa religiosità con cui mi accosto al Sacramento, perché esso é segmento del disegno di Dio, e il mistero di Dio é un mistero di bene che eccede il mio controllo.

Senza questo fondamento l’affermazione della persona come ultimo vero criterio di socialità non può essere sostenuta ed alimentata, ma tutto crolla e ridiventa sottilmente e violentemente ambiguo.

Per questo Pio XI disse una volta: «La democrazia sarà cristiana, 122 o non sarà» (poiché, se Dio «sa trarre figli d’Abramo anche dalle pietre», é pur vero che la Chiesa é il luogo dove vive la coscienza del suo mistero).

 3) Un governo della cosa pubblica che s’ispiri al concetto cristiano di convivenza avrà come ideale il pluralismo. Le trame cioè della vita sociale dovranno rendere possibile l’esistenza e lo sviluppo di qualunque tentativo d’espressione umana. La realizzazione di questa convivenza pluralistica implica gravi problemi: il pluralismo é una direttiva ideale per questo mondo.

Occorre comunque impegnarcisi senza paura.

Il pluralismo, proprio in quanto tende ad affermare tutte le libere esperienze particolari secondo tutta la loro autenticità, é decisamente contraddittorio ad un concetto di democrazia e di apertura, cosi come é portato da una prevalente mentalità fra noi. Si tende a identificare come «democratico» il relativista, qualunque versione del relativismo viva, purché sia relativista: e si tende quindi a identificare come antidemocratico (intollerante, dogmatico) chiunque affermi un assoluto.

Da questa mentalità, o dal compromesso con essa, nasce quel tentativo di definire «spirito aperto » chi sia proclive a «mettere da parte ciò in cui si é divisi, e a guardare solo ciò in cui si é uniti», proclivi a un « mettere da parte le ideologie » (una « deideologizzazione») gravido di equivoci.

In particolare é notevole rilevare come una simile posizione tenda a strappare alla presenza cristiana nell’ambiente e nella società proprio ciò che essa ha di unico, a svuotare la presenza cristiana proprio del contenuto della Sua comunione, a dissipare proprio l’essenza della sua missione.

Soprattutto si potrà facilmente osservare che la prima caratteristica negata al cristiano in nome di tale falsa democrazia é la sua presenza comunitaria nella società: si taccerà di chiusura, di integrismo o di tentata dittatura clericale ogni manifestazione di quel fatto essenziale per cui il cristiano vive ed agisce come comunione e come obbedienza, e perciò come comunità gerarchica.

Per la nostra mentalità cristiana la democrazia é convivenza, cioé é riconoscere che la mia vita implica l’esistenza dell’altro, e lo strumento di questa convivenza é il dialogo. Ma il dialogo é proposta all’altro di quello che io vivo e attenzione a quello che l’altro 123 vive, per una stima della sua umanità e per un amore all’altro che non implica affatto un dubbio di me, che non implica affatto il compromesso in ciò che io sono.

La democrazia, perciò, non può essere fondata interiormente su una quantità ideologica comune, ma sulla carità, cioé sull’amore dell’uomo, adeguatamente motivato dal suo rapporto con Dio.

 Dialogo

Strumento della convivenza con tutta la realtà umana fatta da Dio é il dialogo. Perciò il dialogo é lo strumento della missione.

Se noi fossimo totalmente tagliati fuori dal mondo, dagli altri, e un uomo fosse solo, assolutamente solo, non troverebbe novità alcuna. La novità viene sempre dall’incontro con l’altro; é la regola con cui é nata la vita: noi esistiamo perché altri ci hanno dato vita.

Un seme isolato non cresce più; ma messo in condizioni di essere sollecitato da altro, allora si sprigiona. L’«altro» é essenziale perché la mia esistenza si sviluppi, perché quello che io sono sia dinamismo e vita. Dialogo é questo rapporto con l’«altro», chiunque sia o comunque.

Che cosa l’altro porta? Porta certamente sempre una sottolineatura di interesse che come tale é parziale, ma che nel complesso degli ordinati rapporti aiuta a concretare una maturità unitaria, una compiutezza. Ognuno di noi, proprio perché é un tipo con un determinato temperamento, é portato a sottolineare talune cose:

il contatto con gli altri lo richiama ad altre cose o ad altri aspetti della stessa cosa, così il dialogo é funzione di quegli orizzonti di universalità e di totalità cui l’uomo é destinato.

Pensiamo dunque quale importante funzione della cattolicità della Chiesa sia il dialogo.

L’apertura senza limite, che é propria del dialogo come fattore evolutivo della persona e creativo di una società nuova, ha una gravissima necessità: non é mai vero dialogo se non in quanto io porto coscienza di me. E dialogo, cioè, se viene vissuto come paragone tra la proposta dell’altro e la coscienza della proposta che rappre-sento io, che sono io: non é dialogo, cioè , se non nella misura della mia maturità nella coscienza di me. Per questo se la «crisi», nel senso di impegno per un vaglio della propria tradizione, non precede logicamente il dialogo con l’altro, in quella misura io resto bloccato dall’influsso dell’altro, oppure l’altro che respingo provoca 124 un irrigidimento irrazionale nella mia posizione. Quindi é vero che il dialogo implica un’apertura verso l’altro, chiunque sia -perché chiunque testimonia o un interesse o un aspetto che si sarebbe messo da parte, e perciò chiunque provoca a un paragone sempre più completo -, ma il dialogo implica anche una maturità di me, una coscienza critica di quello che sono.

Se non si tiene presente questo, sorge un pericolo grande: confondere il dialogo con il compromesso. Partire da ciò che si ha in comune con l’altro non significa infatti dire necessariamente la stessa cosa, pur usando le stesse parole: la giustizia dell’altro non é la giustizia del cristiano, la libertà dell’altro non é la libertà del cristiano, l’educazione nella concezione dell’altro non é l’educazione come la concepisce la Chiesa. C’é, per usare una parola della filosofia scolastica, una «forma» diversa nelle parole che usiamo, cioè una forma diversa nel nostro modo di percepire, di sentire, di affrontare le cose. Ciò che abbiamo in comune con l’altro non é tanto da ricercare nella sua ideologia, quanto in quella struttura nativa, in quelle esigenze umane, in quei criteri originari per cui egli é uomo come noi. Apertura di dialogo significa perciò saper partire da ciò cui l’ideologia dell’altro o il nostro cristianesimo fanno proposta di soluzione, perché fra ideologie diverse ciò che é in comune è proprio l’umanità degli uomini che portano quelle ideologie come vessilli di speranza o di risposta.

APPUNTI DI METODO CRISTIANO Cultura 125

 La partecipazione alla vita della Comunità cristiana realizza una nuova coscienza della esistenza e della realtà: nuova, non nel senso di diverso, ma nel senso forte del termine, cioè di definitivo -  secondo l’espressione della Liturgia: «Vetera transierunt, omnia facta sunt nova» -; tutti gli sforzi che sono stati fatti fino ad ora sono stati completati, e non per iniziativa nostra, e il significato della realtà adesso é rivelato in maniera definitiva.

La cultura cristiana indica, quindi, il punto di vista definitivo sulla vicenda della nostra esistenza e sulla realtà del cosmo.

 1) Ci si può introdurre a comprendere l’originalità della cultura cristiana, se si richiama, anche da un punto di vista storico, l’incremento definitivo che essa ha rappresentato nei confronti degli sforzi più autentici ed appassionati che l’Umanità ha compiuto per raggiungere un «punto di vista» vero sulla realtà, per realizzare una cultura.

Consideriamo l’esempio più significativo, lo sforzo culturale che ha avuto una importanza essenziale nella formazione della civiltà occidentale: la cultura greca.

La coscienza greca concepì la cultura come connessa vitalmente all’esistenza degli uomini: era vissuta come coscienza della vita degli uomini, come tentativo di dare alla vicenda quotidiana (vicenda di bene o di male, di gioia o di dolore, di provvisorietà) il significato definitivo.

E fin dall’inizio la realtà che era detta «aion» (cioè radicata saldamente nell’essere: e quindi non opera dell’uomo, ma «dato» ad esso offerto) fu intuita «in comunione». Una comunione misteriosa che il pensiero dell’uomo doveva appunto rivelare portandola 126 alla luce: di qui il termine greco di verità, «aletheia», come realtà da condurre fuori dal nascondimento.

Due dei concetti intuiti dalla coscienza filosofica greca ancora nel suo periodo aurorale furono quelli di «cosmos» (l’ordine, l’armonia di tutto l’Essere) o quello di «dike» (la giustizia, la legge, ritmo profondo dell’Essere, consonanza contro ogni discrepanza).

Essi indicano m modo significativo l’azione operata sulla coscienza greca da quell’intuizione della realtà come comunione. Sotto la spinta di questa intuizione il pensiero greco andò alla ricerca dell’altro mondo, cioè della zona stabile dell’essere, il misterioso principio della comunione della realtà e degli uomini. La ricerca di questa dimensione della realtà (e senza la ricerca, a detta di Socrate, la vita dell’uomo non era degna d’essere vissuta, poiché l’uomo muore nella vicenda di tutti i giorni se non ne coglie il significato autentico) fu concepita originalmente come un «ascolto» di quanto quella misteriosa origine volesse dire al desiderio dell’Uomo.

Il termine «logos», usato per definire il pensiero dell’uomo in quanto capace di rivelare la verità, di portare l’«aletheia» dal nascondimento alla luce dell’evidenza, richiama essenzialmente il concetto di un’autorivelazione dell’Essere che la coscienza dell’uomo registra.

Il Platonismo fu, nella coscienza filosofica greca, l’acquisizione di un punto fondamentale. Il mondo delle idee era l’ambito da cui il mondo delle cose di sempre riceveva tutta la sua consistenza, tutto il suo significato. Ed anche il rapporto fra i due mondi fu definito, seppur tentativamente, in modo più preciso. Il mondo sensibile imitava il mondo delle idee, partecipava al mondo delle idee. Con il concetto di «partecipazione» una luce grande era entrata nella coscienza dell’Uomo greco: tutta la realtà, dalla più grande e degna alla più piccola e vile, costituiva una grande armonia, perché realizzava la partecipazione con un Altro mondo. Tutta la vita l’uomo doveva quindi vivere alla luce di questa partecipazione: essa diventava principio della moralità, forma della convivenza fra gli uomini.

La civiltà greca fu la testimonianza più suggestiva della passione con cui il tentativo fu compiuto.

Come la coscienza greca fu appassionatamente attiva nello sforzo di realizzazione della cultura, così fu anche acutamente consapevole dei limiti immanenti alla visione realizzata. 127

Cosi in tutte le formulazioni culturali é presente la coscienza dei limiti con una capacità di sincerità che non può non essere anche per noi un richiamo ed insegnamento. I Greci si accorgevano che, per quanto completa potesse essere la visione culturale da essi formulata, la Realtà, l’Essere andava inesorabilmente al di là, la eccedeva da tutte le parti. Tutte le autocritiche che i filosofi greci seppero farsi con una spassionatezza quasi incredibile tendevano a misurare il dislivello fra l’Essere e la propria concezione dell’Essere. Tanto erano autenticamente filosofi, cioè in ascolto della voce dell’Essere, da esser consapevoli che i propri balbettamenti traducevano inadeguatamente, e quindi tradivano, quella Voce unica.

Per questo la parola «certezza» fu a loro sconosciuta: ed i filosofi più grandi confessarono, giunti al passo estremo, che tutto era riconsegnato all’Essere, che tutto quello che avevano pensato aveva bisogno di una conferma che essi non sapevano dare. Nulla, insomma, riusciva a strappare anche le formulazioni più geniali all’essenziale insicurezza del pensiero di un uomo solo.

 2) «II Verbo si é fatto carne ed ha abitato fra noi». L’Eterno é entrato nel tempo: la verità finalmente si é fatta presente senza veli e senza remore, non più come termine di un desiderio struggente, non più come aspirazione che muove alle realizzazioni più diverse, ma presenza concreta ineliminabile. La voce di un Uomo, la presenza di un Uomo, la convivenza di un Uomo. L’iniziativa di Dio ha risposto, con la stessa imprevedibilità della creazione, all’attesa appassionata degli uomini. La verità é venuta ed ha riempito i nostri cuori. Ii pensiero dell’uomo ha valore solo se si adegua alla Sua verità presente fra noi. Il mondo con tutte le sue misure, i suoi criteri di giudizio e di azione, «jam iudicatus est»: una logica nuova sorpassa da ogni parte quella vecchia, «scandalo per i Giudei, pazzia per i Gentili».

Quando parlava di Sé e della visione nuova dell’esistenza degli uomini e della realtà di cui Egli era l’inizio, Gesù Cristo usava il termine «roccia»: che non può più essere smossa, che dà fondamento a tutto, senza di cui non si può costruire nulla, che toglie ogni precarietà. Quanti si imbatterono in Lui, avendo prima vissuto l’esperienza della cultura greca, testimoniarono in maniera commovente che quello che i greci avevano cercato ed intuito, quel Dio ignoto cui avevano innalzato un’ara sull’Areopago, Quello era 128 venuto: bisognava abbandonarsi con animo grato all’evidenza della Sua presenza.

«II Logos non si é nascosto a nessuno, é una luce comune, brilla per tutti gli uomini: non ci sono Cimmeri in relazione al Logos, affrettiamoci verso la salvezza, verso la rinascita, affrettiamoci…» (Clemente Alessandrino, Protrettico, IX,88). Cristo rivela agli uomini il disegno della realtà: Egli é l’origine, il destino unico degli uomini e delle cose, per cui si attua un mistero di redenzione di tutta la realtà. La «Comunione» intuita dai greci trova in Lui il suo punto di consistenza: la realtà esiste perché é comunione con Lui, la vita dell’uomo é vera nella misura in cui diventa riconoscimento della comunione con Lui.

Cristo appare così principio della cultura definitiva.

«In Lui tutto é stato creato come nel centro di unità, di armonia, di coesione che dà al mondo il suo significato, il suo valore e attraverso ciò la sua realtà, o, per usare un’altra metafora, come il luogo dove si riallacciano e si coordinano tutti i fili, tutte le generatrici dell’universo. Chiunque instauri un punto di vista sull’universo totale, passato presente e futuro, vede tutti gli esseri sospesi ontologicamente al Cristo e diventare definitivamente intelligibili attraverso di Lui… Fissate in Lui, tutte le cose si tengono per cosi dire insieme. Se esse trovano in Lui la loro solidità, non é ciascuna per conto suo ma nel loro legame mutuo. Il Cristo é il loro principio di coesione e di armonia; del mondo creato Egli fa un cosmos, un universo ordinato, dandogli un senso, un valore, rapportandolo ad un fine. Egli é dunque il centro dominatore e come la chiave di volta dell’universo» (J. Huby, Epistole della cattività, pp. 40, 42).

Così quell’angustia in cui i greci mortificarono il loro amore per la verità (e per cui parlavano di sé come inesorabilmente opposti ai «barbari») fu spezzata dalla consapevolezza che tutta la realtà era stata redenta dal gesto di Cristo. L’universalità diventa dimensione essenziale dell’unica cultura. Nulla poteva essere concepito come estraneo al disegno rivelato da Cristo; m esso ogni cosa ritrovava il suo volto vero, la sua piena valorizzazione. «Nihil sine voce» (San Paolo).

Tutto l’universo di interessi e di abilità dell’uomo é animato dalla luce di Cristo. La luce della Sua presenza favorisce fin nelle sfumature lo sviluppo delle umane «competenze» come valorizzazione sempre più precisa del particolare e di tutto il dinamismo 129 cui esso può ridestare l’umana capacità, ma nello stesso tempo purga tali competenze da ogni esasperazione e da ogni astrazione che ne dissolva l’integrazione in un contesto culturale autentico e distrugga la sintesi in cui solo hanno valore.

Cosi l’atteggiamento che rendeva i Greci ostili di fronte ad altre culture e ad altre civiltà, diventava disposizione profonda a «dialogare»: «vagliate ogni cosa, trattenete il Valore» (Cfr. i Tess 5,21).

«L’unione di molte voci, quando la loro dissonanza e dispersione sono state sottomesse ad una armonia divina, costituisce finalmente una sola armonia, ed íl coro obbedendo al suo maestro, il Logos, non trova il suo riposo e la sua quiete che nella Verità stessa, quando può dire: “Abbà, Padre”; allora questa voce tutta conforme alla Verità Dio l’accoglie con premura come la prima gioia che i suoi figli gli procurano» (Clemente Alessandrino, Protrettico, IX,88).

3) Cristo ha realizzato in quanti Lo hanno seguito una «metanoia» radicale, un cambiamento definitivo di mentalità: ha fatto nascere una sensibilità ed un giudizio radicalmente nuovi.

Solo Cristo é stato l’inizio della sapienza: solo la prosecuzione reale della sua presenza tra noi, la comunità della Chiesa, é l’ambito della nostra «metanoia», il luogo ove la mentalità di Gesù Cristo può diventare la nostra mentalità.

La comunità della Chiesa diventa la matrice della cultura cristiana.

«Charitas veritatem parit». É un giudizio nuovo perché nasce da una vita nuova. Il criterio nuovo nasce da un «seguire» continuamente rinnovato, da una fedeltà viva alla realtà della Comunità, dalla «morte» del criterio in quanto «mio». La cultura nuova nasce se si accetta il ritmo e la legge della comunità: é una cosa che isolatamente non si può realizzare, perché nel tentativo l’oggetto si altera. Solo una immedesimazione cosciente nei criteri e nelle direttive della comunità, solo una dipendenza integrale dal luogo obiettivo di quei criteri e di quelle direttive, cioè l’Autorità, é la strada maestra per la realizzazione di una autentica cultura cristiana. Tutto deve essere ricondotto alla comunità, tutto giudicato sul suo metro, tutto captato con la sua sensibilità.

Perciò una comunità d’ambiente giovanile educa ad un criterio e ad una sensibilità generativi di cultura cristiana in quanto abitua ad una sistematica revisione degli insegnamenti che arrivano al giovane, 130 e ad un costante confronto con gli avvenimenti che accadono dal punto di vista cristiano.

Il termine «cultura cristiana» diventa equivoco, e più spesso esplicitamente svuotato di contenuto, là dove l’adesione alla Chiesa é soltanto formale, e 1′uomo rimane attaccato alla povertà del suo individualismo. Allora non può nascere una cultura cristiana, non può accadere il miracolo di una personalità integralmente cristiana:

ci si deve rassegnare alla tristezza di un «sale che diventa scipito», ad «un talento messo sotto terra per paura di perderlo», o si moltiplicano individui dai quali San Giovanni metteva in guardia i primi cristiani dicendo: «Sono con noi, ma non sono da noi».

4) Necessita della «crisi». La parola «crisi» (dal greco «crino» vagliare) é normalmente sentita, purtroppo, nella mentalità di oggi, in senso dubitoso e negativo, come se crisi e critica automaticamente coincidano con la negazione, per cui di fatto la critica é eletta a motivo scandalistico, a ricerca delle cose da accusare, delle realtà cui obiettare: é questo, evidentemente, un concetto «miope» di crisi, di critica.

La critica invece é innanzitutto l’espressione della genialità umana che é in noi, una genialità tutta protesa a scoprire l’essere, a scoprire i valori. Basta aggiungere un minimo di sincerità, basta aggiungere l’equilibrio realistico, e l’affermazione dei valori scoperti implicherà con chiarezza anche il loro limite. La parola crisi non é legata alla parola «dubbio», ma piuttosto alla parola problema: che nella sua etimologia greca indica un «porsi davanti» agli occhi qualcosa.

Ma che cosa porsi davanti agli occhi innanzitutto, e cronologicamente e come valore?

Ognuno di noi non esisteva: perciò ognuno di noi é formulato da un antefatto, un complesso che lo costituisce, che lo plasma.

La parola «problema» si riferisce innanzitutto a questo fenomeno fondamentale per una vera novità nell’esistenza di ognuno e nella vita del cosmo umano: la tradizione, dote con cui l’esistenza ci arricchisce alla nascita e nel primo sviluppo; e l’individuo, nella misura in cui é vivo ed intelligente, la deve vagliare ed esaminare (crinein).

La tradizione deve «entrare in crisi», la tradizione deve diventare problema. Crisi significa dunque presa di coscienza della realtà da cui ci sentiamo formulati; e per questo essa é genialità e non distruzione, 131 non grettezza ma intelligenza, apertura pronta a riconoscere la corrispondenza, non lamentosa di quel che non trova, ma tutta gioiosa di quel che trova.

Si tratta innanzitutto, dunque, di una serietà di fronte al passato; e questa é prima condizione per la conoscenza matura e culturale dell’esistenza e del reale, proprio perché non é cultura senza un attacco critico, e inevitabile condizione per un attacco critico é la presa di coscienza degli strumenti, delle strutture, delle posizioni con cui e da cui faremo via via gli incontri nella vita.

Prendere sul serio la tradizione, prendere sul serio il proprio passato, significa impegnarsi con esso secondo le modalità che esso implica, per poterne scoprire i valori ed abbandonare quello che valore non é, per poterne scoprire la corrispondenza con ciò che si é e poter liberarsi da ciò che poteva corrispondere alla situazione solo di altri tempi.

Fedeltà e libertà sono così le due condizioni senza le quali non c’é senso del passato, senso della storia, perché la storia é una permanenza che si mobilita in versioni sempre nuove. E senza permanenza non esisterebbe neanche novità, ma solo una frustrazione continua di tutto, esisterebbe quella che é la fondamentale disperazione del sentimento dell’uomo di oggi: il suo rabbioso ed accanito tentativo di risolvere tutta quanta l’ansia della sua coscienza m una creazione totalmente diversa; e la creazione fatta dall’uomo di un tipo umano totalmente diverso é una esasperazione pazzesca, un mito maniaco.

Prendere sul serio la tradizione cristiana, prendere sul serio la Chiesa come storia, ecco il primo grande dovere della nostra coscienza e quindi il più urgente dovere della nostra vita culturale, perché da questa sarà generato il nostro lavoro sul mondo.

E occorrerà portare in questo lavoro una attenzione e una apertura totale, una libertà di spirito che ci permetta di esprimere in modo vivo il nostro cristianesimo, di tradurlo in forme magari nuove, abbandonando immediatamente, se le cose lo richiedono la forma vecchia con la prontezza e l’agilità cui accenna Gesù, quando nel Vangelo dice che il cristianesimo e la vita che Egli ha portato é come un vino sempre nuovo, e non si mette il vino nuovo negli otri vecchi, né si prende il panno nuovo e lo si mette sull’antico, perché allora «peior scissura fit», cioè andrebbe peggio di prima.