RATZINGER JOSEPH, Introduzione allo spirito della liturgia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 20013
PREMESSA
Una delle mie prime letture dopo l’inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l’opera prima di Romano Guardini Lo spirito della liturgia, un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918 come volume inaugurale della collana «Ecclesia orans», a cura dell’abate Herwegen, più volte ristampato fino al 1957. Quest’opera può a buon diritto essere ritenuta l’avvio del movimento liturgico in Germania. Essa contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana. Essa diede il suo contributo perché si celebrasse la liturgia in maniera «essenziale» (termine assai caro a Guardini); la si voleva comprendere a partire dalla sua natura e dalla sua forma interiori, come preghiera ispirata e guidata dallo stesso Spirito Santo, in cui Cristo continua a divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita.
Vorrei arrischiare un paragone, che come tutti i paragoni è in gran parte inadeguato, ma che aiuta a capire.
Si potrebbe dire che la liturgia era allora – nel 1918 -, per certi aspetti, simile a un affresco che si era conservato intatto, ma che era quasi coperto da un intonaco successivo: nel messale, con cui il sacerdote la celebrava, la sua forma era pienamente presente, così come si era sviluppata dalle origini, ma per i credenti essa era ampiamente nascosta da istruzioni e forme di preghiera di carattere privato. Grazie al movimento liturgico e – in maniera definitiva – grazie al concilio Vaticano II, l’affresco fu riportato alla luce e per un momento restammo tutti affascinati dalla bellezza dei suoi colori e delle sue figure. Ma nel frattempo, a causa dei diversi errati tentativi di restauro o di ricostruzione nonché per il disturbo arrecato dalla massa dei visitatori, questo affresco é stato messo gravemente a rischio e minaccia di andare in rovina, se non si provvede rapidamente a prendere le misure necessarie per porre fine a tali influssi dannosi. Naturalmente non si deve tornare a coprirlo di intonaco, ma é indispensabile una nuova comprensione del suo messaggio e della sua realtà, così che l’averlo riportato alla luce non rappresenti il primo gradino della sua definitiva rovina.
Questo libro vorrebbe proprio rappresentare un contributo a tale rinnovata comprensione. Le sue intenzioni coincidono quindi sostanzialmente con ciò che Guardini si era proposto a suo tempo; per questo ho volutamente scelto un titolo che ricorda espressamente quel classico della teologia liturgica. Solo che bisognava ripensare ciò che Guardini aveva elaborato alla fine della prima guerra mondiale in un contesto storico completamente diverso, applicandolo alle problematiche, alle speranze e ai pericoli del nostro tempo. Come Guardini, anch’io non ho voluto sviluppare una trattazione o condurre una ricerca di tipo scientifico, ma offrire un aiuto per la comprensione della fede e per una corretta attuazione della sua forma precipua di espressione nella liturgia. Se questo libro riuscisse a sua volta a essere di stimolo a qualcosa come un «movimento liturgico», un movimento verso la liturgia e verso una sua corretta celebrazione, esteriore ed interiore, l’intenzione che mi ha spinto a tale lavoro sarebbe pienamente realizzata.
Roma, nella festa di sant’Agostino 1999
JOSEPH RATZINGER
RATZINGER JOSEPH, Introduzione allo spirito della liturgia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 20013
Estratto dal Capitolo primo LITURGIA E VITA:
IL POSTO DELLA LITURGIA NELLA REALTÀ
Che cosa si intende per «liturgia»? Che cosa avviene in essa? In quale tipo di realtà ci imbattiamo in essa? Negli anni Venti del 1900 si fece il tentativo di ricomprendere la liturgia come «gioco»; il punto di paragone era anzitutto il fatto che la liturgia, come il gioco, ha regole proprie e crea un suo mondo che vale quando si entra in essa e che poi, altrettanto naturalmente, viene meno quando il «gioco» finisce. Un altro punto di paragone era che il gioco é si dotato di senso, ma allo stesso tempo é libero e, proprio per questo, ha in sé qualcosa di terapeutico, anzi, di liberatorio, dal momento che ci fa uscire dalla vita di tutti i giorni e dai fini che la caratterizzano, insieme con le costrizioni che questi ultimi comportano, liberandoci quindi, per qualche tempo, da tutto ciò che opprime la nostra vita lavorativa. II gioco sarebbe, per così dire, un altro mondo, un’oasi di libertà in cui possiamo per un momento lasciar scorrere liberamente l’esistenza; di tali momenti di evasione dal potere del quotidiano noi abbiamo bisogno per riuscire a sopportarne il peso. In questo ragionamento c’é qualcosa di vero, ma una simile osservazione non può bastare. Infatti, se così fosse, sarebbe del tutto secondario a quale gioco giochiamo; tutto ciò che si e detto può essere applicato a qualunque gioco, il cui necessario e intrinseco legame al rispetto delle regole sviluppa subito la sua particolare fatica e conduce a situazioni a loro volta (9) intricate; si pensi al mondo attuale dello sport, ai campionati di scacchi o ad altri giochi: dovunque si vede che il gioco, dal totalmente altro di un mondo diverso o di un non-mondo, subito diventa un pezzo di mondo, con sue leggi, sempre che non voglia perdersi in puri, vuoti trastulli.
C’é ancora un aspetto di questa teoria del gioco che merita di essere menzionato e che ci porta molto più vicino all’essenza particolare della liturgia: il gioco dei bambini appare in molti suoi aspetti una sorta di anticipazione della vita un addestramento a quella che sarà la loro vita successiva, senza però comportare tutto il peso e la serietà di quest’ultima. Allo stesso modo la liturgia potrebbe ricordarci che noi tutti davanti alla vera vita, cui desideriamo arrivare restiamo infondo come dei bambini o, in ogni caso dovremmo restare tali; la liturgia, sarebbe allora una forma completamente diversa di anticipazione, di esercizio preliminare: preludio della futura vita, della vita eterna, di cui Agostino dice che, a differenza della vita attuale, non é intessuta di bisogno e di necessità, ma in tutto e per tutto della libertà del donare e del dare. La liturgia sarebbe allora riscoperta del nostro vero essere bambini, dentro di noi, dell’apertura alla grandezza che ci sta davanti e che non é ancora compiuta con la vita adulta; essa sarebbe una forma ben definita della speranza, che anticipa la vera vita, che ci introduce alla vita autentica – quella della libertà, dell’immediatezza con Dio e della totale apertura reciproca. Così, essa imprime anche nella vita apparentemente reale di tutti i giorni i segni anticipatori della libertà, che rompono le costrizioni e lasciano trasparire il cielo sulla terra.
Una simile applicazione della teoria del gioco innalza la liturgia ben al di sopra del gioco in generale, in cui vive pur sempre l’anelito del vero «gioco», del (10) totalmente altro di un mondo in cui ordine e libertà si fondono tra loro; rispetto alla superficialità del gioco usuale, prigioniero comunque delle proprie finalità e, insieme, umanamente vuoto, essa fa emergere la particolarità e l’alterità del «gioco» della sapienza, di cui paria la Bibbia e che si può quindi porre in rapporto con la liturgia. Ma ci manca ancora un contenuto essenziale di questo abbozzo, dato che il pensiero della vita futura vi compare per ora solo come un vago postulato e la vista di Dio, senza la quale la «vita eterna» sarebbe solo deserto, resta ancora del tutto indeterminata. Voglio quindi proporre un nuovo approccio, traendolo, questa volta, dalla concretezza dei testi biblici.
Nei racconti degli eventi che precedettero l’uscita di Israele dall’Egitto, così come delle modalità dell’esodo, emergono due diverse finalità di questo evento straordinario. Una, nota a tutti noi, é il raggiungimento della Terra Promessa, in cui Israele deve vivere finalmente libero e indipendente su una terra propria, tra confini sicuri. Accanto a essa compare però ripetutamente un’altra finalità. L’ordine che originariamente Dio dà al faraone é il seguente: «Manda via il mio popolo, perché mi serva nel deserto» (Es 7,16). Questa espressione – «Manda via il mio popolo, perché mi serva» – viene ripetuta con leggere varianti quattro volte, vale a dire in tutti gli incontri del faraone con Mosè e Aronne (Es 7,26; 9,1; 9,13; 10,3). Nel corso delle trattative con il faraone lo scopo si viene poi ulteriormente concretizzando. II faraone si mostra disposto al compromesso. Per lui il problema é quello della libertà di culto degli israeliti, cui in un primo momento acconsente nella forma seguente: «Andate a sacrificare al vostro Dio nel paese» (Es 8,21). Ma Mosè – tenendo fede al comando di Dio – insiste nell’affermare (11) che per il culto é necessario l’esodo. II luogo in cui andare é il deserto: «Per un cammino di tre giorni andremo nel deserto a sacrificare al Signore, nostro Dio, come ci aveva detto» (8,23). Dopo le piaghe successive, il faraone si manifesta ancora più disponibile al compromesso. Ora concede che il culto abbia luogo secondo il volere della divinità, dunque nel deserto, ma vuole che a uscire siano solo gli uomini mentre le donne e i bambini, così come il bestiame devono rimanere in Egitto. In tal modo presuppone una prassi cultuale allora usuale, secondo cui solo gli uomini erano protagonisti attivi del culto. Mose, però non può negoziare con il sovrano straniero la modalità del culto, non può subordinarlo a un compromesso politico: la forma del culto non é una questione di concessioni politiche; esso ha in se stesso la propria misura, può essere regolato solo dalla misura della rivelazione, a partire da Dio. Per questo viene respinta anche la terza proposta di compromesso del faraone, che questa volta é disposto a concedere molto di più e acconsente che anche donne e bambini possano partire. «Solo restino il vostro gregge e il vostro armento» (10,24). Mosè ribatte che deve portare con se tutto il bestiame, poiché «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore finché non arriveremo laggiù» (10 26). In tutto ciò non si parla della Terra Promessa; unico scopo dell’esodo appare l’adorazione, che può avvenire solo secondo la misura di Dio e che, quindi, sfugge alle regole di gioco del compromesso politico. (12)
Israele non parte per essere un popolo come tutti gli altri; parte per servire Dio. La meta dell’esodo é il monte di Dio, ancora sconosciuto, é il servizio da rendere a Dio. Ora si potrebbe obiettare che l’accento posto sul culto nel corso delle trattative con il faraone sarebbe stato di natura tattica. Lo scopo vero e ultimo (12) dell’esodo non sarebbe stato cioè il culto, ma la terra, che costituisce anzi il vero oggetto della promessa fatta ad Abramo. Non credo che con ciò si renda giustizia alla gravità che si percepisce nei testi. In fondo, la contrapposizione di terra e culto é priva di senso: la terra viene data perché sia un luogo di culto del vero Dio. II semplice possesso della terra, la semplice autonomia nazionale farebbero scendere Israele al livello di tutti gli altri popoli. Questa finalità porterebbe a disconoscere la specificità dell’elezione: l’intera storia dei libri dei Giudici e dei Re, ripresa e rispiegata nelle Cronache, mostra appunto che la terra come tale, presa in se stessa, resta ancora un bene indeterminato, che diventa vero bene, vero dono della promessa compiuta solo se vi regna Dio; se la terra non esiste come una sorta di stato autonomo, ma se é lo spazio dell’obbedienza, in cui si compie la volontà di Dio e così si realizza la giusta forma dell’esistenza umana. L’esame del testo biblico ci consente però di determinare ancora più precisamente il rapporto che intercorre tra i due scopi dell’esodo. L’Israele peregrinante non apprende ancora, dopo tre giorni (come era stato annunciato nel colloquio con il faraone), quale forma di sacrificio Dio pretenda da lui. Tre mesi dopo, però, «dall’uscita dei figli d’Israele dalla terra d’Egitto, in quel giorno, arrivarono nel deserto del Sinai» (Es 19,1). II terzo giorno avviene allora la discesa di Dio sulla cima del monte (19,16.20). Ora Dio parla al popolo, gli manifesta la sua volontà nelle dieci sante parole (20,1-17) e stabilisce con Mosè l’alleanza (Es 24), che si concretizza in una forma minuziosamente regolata di culto. In tal modo lo scopo della peregrinazione nel deserto, annunciato al faraone, si é compiuto: Israele impara ad adorare Dio nel modo da Lui stesso voluto. Di tale adorazione fa parte il culto, la liturgia in senso stretto; ma essa richiede anche il vivere (13) secondo la volontà di Dio, che é una parte irrinunciabile della vera adorazione. «La gloria di Dio é l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo é vedere Dio», afferma sant’Ireneo (Adv. haer. IV, 20,7), cogliendo esattamente ciò che avviene nell’incontro sulla montagna nel deserto: in definitiva é la vita stessa dell’uomo, dell’uomo che vive secondo giustizia, la vera adorazione di Dio, ma la vita diventa vita vera solo se riceve la sua forma dallo sguardo rivolto a Dio. Il culto serve proprio a questo, a offrire questo sguardo e a dare così la vita, che diventa gloria per Dio.
Tre cose sono importanti per la nostra questione:
sul Sinai il popolo non riceve solo delle disposizioni cultuali, ma un ordinamento giuridico e una regola di vita completi. Solo in questo modo esso si costituisce come popolo. Un popolo senza un ordinamento giuridico comunitario non può sussistere. Esso precipita nell’anarchia, che é la parodia della libertà, il suo annullamento nell’arbitrio di ciascuno, che é la sua totale assenza di libertà. Nell’ordinamento dell’alleanza al Sinai – ed é il secondo punto – i tre aspetti del culto, del diritto e dell’ethos sono indissolubilmente intrecciati tra loro: é questa la loro grandezza, ma anche il loro limite, come si dimostrerà nel passaggio da Israele alla Chiesa dei pagani, in cui questo intreccio dovrà essere dissolto per dare spazio a una molteplicità di forme giuridiche e ordinamenti politici. Ma dopo questo inevitabile smembramento, che in epoca moderna ha portato infine alla totale secolarizzazione del diritto e che ha voluto escludere completamente ogni riferimento a Dio nell’elaborazione del diritto, non si può certo dimenticare che davvero esiste una fondamentale correlazione interna fra questi tre ordinamenti: un diritto che non si basi sulla morale diventa ingiustizia; una morale e un diritto che non prendano le mosse dal riferimento a Dio degradano l’uomo, perché lo privano (14) della sua misura più elevata e della sua possibilità più alta, perché gli negano la visione dell’infinito e dell’eterno: con questa apparente liberazione egli viene sottoposto alla dittatura della maggioranza dominante, a criteri umani contingenti che finiscono per fargli violenza.
Arriviamo così a una térza constatazione, che ci riporta al nostro punto di partenza, alla questione dell’essenza del culto e della liturgia: un ordinamento delle cose umane che non conosce Dio sminuisce l’uomo. Per questo culto e diritto non possono essere completamente separati tra di loro: Dio ha diritto alla risposta dell’uomo, all’uomo stesso, e dove questo diritto di Dio scompare del tutto si dissolve anche l’ordinamento giuridico umano, perché gli viene a mancare la pietra angolare che tiene insieme il tutto.
Che cosa significa allora tutto ciò per la nostra domanda sulle due finalità dell’Esodo, in cui viene ultimamente affrontata la questione dell’essenza della liturgia? E evidente che quel che é accaduto sul Sinai, durante la sosta nella peregrinazione attraverso il deserto, é costitutivo per il senso che avrà l’insediamento nella Terra Promessa. Il Sinai non é una stazione intermedia, una pausa nella marcia verso ciò che interessa davvero, ma offre per così dire quella terra interiore, senza la quale l’esteriore resta inabitabile. Solo perché Israele é costituito come popolo grazie all’alleanza e alla legge di Dio che essa contiene, solo perché ha ricevuto la forma comunitaria della vita retta, la terra può divenire per lui davvero un dono. Il Sinai resta presente nella terra; nella misura in cui la sua realtà va persa, anche la terra viene interiormente persa, fino alla condanna all’esilio. Tutte le volte che Israele viene meno al giusto culto di Dio, volgendosi agli idoli – ai poteri e ai valori mondani -, viene meno anche la sua libertà. Può vivere nella sua terra e tuttavia é come (15) se fosse in Egitto. Il semplice possesso della propria terra e del proprio stato non garantisce la libertà, può divenire una brutale schiavitù; ma quando lo smarrimento della legge é totale, finisce per perdere anche la terra. Quanto il «servire Dio», la libertà del giusto culto di Dio – che di fronte al faraone appare come l’unico scopo dell’uscita dall’Egitto -, sia davvero ciò di cui tratta nell’Esodo, lo si può vedere in tutto il Pentateuco: questo vero e proprio «canone nel canone», il cuore della Bibbia di Israele, si svolge tutto al di fuori della Terra Santa. Esso si conclude ai margini del deserto, «al di là del Giordano», dove Mosè riassume di nuovo il messaggio del Sinai. Diventa così evidente qual é il fondamento del permanere nella Terra, la condizione per poter vivere in comunità e in libertà: lo stare nella legge di Dio, che ordina le cose umane secondo giustizia, plasmandole a partire da Dio e per Dio.
Che significa tutto ciò per il nostro problema? Anzitutto si vede ancora una volta che il «culto», inteso nella sua vera pienezza e profondità, va ben oltre l’azione liturgica. Esso in definitiva abbraccia l’ordine di tutta la vita umana, nel senso delle parole di Ireneo: l’uomo diventa glorificazione di Dio, lo mette per così dire in luce (ed é questo il culto), quando vive guardando a Lui. D’altra parte é vero che il diritto e la morale non stanno insieme se non sono ancorati nel centro liturgico e non traggono da esso ispirazione. Che tipo di realtà troviamo allora nella liturgia? Possiamo dire anzitutto che chi elimina Dio dal concetto di realtà é solo apparentemente un realista. Egli astrae da Colui in cui noi «viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28). Ciò significa che solo se il rapporto con Dio è giusto anche tutte le altre relazioni dell’uomo – quelle degli uomini tra di loro e dell’uomo con le altre realtà create – possono funzionare. Il diritto – lo abbiamo (16) già visto – é costitutivo per la libertà e la comunità; il culto, vale a dire il giusto modo di rapportarsi a Dio é, a sua volta, costitutivo per il diritto. Possiamo ora ampliare questa visione facendo un altro passo avanti: l’adorazione, la giusta modalità del culto, del rapporto con Dio, é costitutiva per la giusta esistenza umana nel mondo; essa lo é proprio perché attraverso la vita quotidiana ci fa partecipi del modo di esistere del «cielo», del mondo di Dio, lasciando cosi trasparire la luce del mondo divino nel nostro mondo. In questo senso il culto ha di fatto – come abbiamo detto a proposito dell’analisi del «gioco» – il carattere di un’anticipazione. Esso prefigura una vita più definitiva e, in tal modo, dà alla vita presente la sua misura. Una vita in cui manca tale anticipazione, in cui il cielo non è più abbozzato, diverrebbe plumbea e vuota. Per questo non esistono società totalmente prive di culto. Persino i sistemi decisamente ateistici e materialistici hanno realizzato nuove forme di culto, che risultano però solo illusorie e che inutilmente cercano di nascondere la loro nullità nella loro ampollosa millanteria.
Con ciò arriviamo a un’ultima riflessione. L’uomo non può «farsi» da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra. Quando Mosè dice al faraone: «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore» (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie. Se Dio non si mostra, l’uomo, sulla base di quell’intuizione di Dio che é iscritta nel suo intimo, può certamente costruire degli altari «al dio ignoto» (cfr. At 17,23); può protendersi con il pensiero verso di lui, cercarlo procedendo a tastoni. Ma la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo.
Essa implica una qualche forma di istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra (17) creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma. Essa presuppone qualcosa che stia concretamente di fronte, che si mostri a noi e indichi così la via alla nostra esistenza.
Di questa non arbitrarietà del culto vi sono nell’Antico Testamento numerose e impressionanti testimonianze. In nessun altro passo, però, questo tema si manifesta con tanta drammaticità come nell’episodio del vitello d’oro (o meglio, del torello). Questo culto, guidato dal sommo sacerdote Aronne, non doveva affatto servire un idolo pagano. L’apostasia é più sottile. Essa non passa apertamente da Dio all’idolo, ma resta apparentemente presso lo stesso Dio: si vuole onorare il Dio che ha condotto Israele fuori dall’Egitto e si crede di poter rappresentare in modo appropriato la sua misteriosa potenza nell’immagine del torello. In apparenza tutto é in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia é una caduta nell’idolatria. Due cose portano a questo cedimento, inizialmente appena percettibile. Da una parte la violazione del divieto delle immagini: non si riesce a mantenere la fedeltà al Dio invisibile, lontano e misterioso. Lo si fa scendere al proprio livello, riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità. In tal modo il culto non é più un salire verso di lui, ma un abbassamento di Dio alle nostre dimensioni: Egli deve essere lì dove c’é bisogno di Lui e deve essere così come si ha bisogno di Lui. L’uomo si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di lui. Con ciò si é già accennato alla seconda cosa: si tratta di un culto fatto di propria autorità. Se Mosè rimane assente a lungo e Dio diventa quindi inaccessibile, allora lo si porta al proprio livello. Questo culto diventa così una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa. Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio (18) che gira intorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi. La danza intorno al vitello d’oro é l’immagine di questo culto che cerca se stesso, che diventa una sorta di banale autosoddisfacimento. La storia del vitello d’oro é un monito contro un culto realizzato a propria misura e alla ricerca di se stessi, in cui in definitiva non é più in gioco Dio, ma la costituzione, di propria iniziativa, di un piccolo mondo alternativo.
Allora la liturgia diventa davvero un gioco vuoto. O, ancora peggio, un abbandono del Dio vivente camuffato sotto un manto di sacralità. Ma alla fine resta anche la frustrazione, il senso di vuoto. Non c’é più quell’esperienza di liberazione che ha luogo il dove avviene un vero incontro con il Dio vivente. (19)
JOSEPH RATZINGER