Luca Parmeggiani Pittore
Una Mostra per Elena (1987)
Immagine 1 -1980, Vetro verde
Immagine 1a -1980, Vetro verde particolare
Immagine 1b -1980, Vetro verde particolare
Immagine 2 -1982, Interno
Immagine 3 -1983, Mio padre o la vita per la pittura
Immagine 4 -1984, Broccato bianco
Immagine 5 -1984, La pannocchia si sbraccia, il melograno si spacca, la foglia si accartoccia
Immagine 6 -1984, L’intercedere della conchiglia tra fuochi di paglia e lune di zucche
Immagine 7 -1986, Astrazione i un interno
Immagine 8 -1984, Autoritratto
Immagine 9 -1986, Danza delle foglie morte
Immagine 9a -1986, Danza delle foglie morte particolare
Immagine 10 -1986, La Sedia bleu
Immagine 11 -1986, Scarpette rosa
Immagine 12 -1986, Zinie
Immagine 13 -1987, La conchiglia bianca
Luca Parmeggiani nasce a Thiene (Vicenza) nel 1960, ma sin dall’infanzia risiede a Roma dove tutt’ora vive e lavora.
Si dedica agli studi umanistici diplomandosi al Liceo Classico e frequentando poi la Facoltà di Lettere e Filosofia; successivamente intraprende gli studi musicali flauto traverso. Alla fine prevale l’amore per la pittura che ora è per lui ragione di vita. Luca è figlio d’arte; la sua formazione artistica matura nello studio del padre, Romano Parmeggiani. E anche nipote di Tancredi.
1984 vince il premio nazionale di pittura indetto dal mensile “Arte” (Mondadori).
1987 esordisce con la sua prima personale presso la galleria “Astrolabio” di Messina (catalogo edito dal Comune di Messina con presentazione di Lucio Barbera).
1987 partecipa come giovane pittore alla rassegna “Primoconcerto” a Monchiero (presentazione di Paolo Levi).
1990 prima mostra a Milano alla “Appiani Arte Trentadue” (presentazione di Ferruccio Ulivi).
È invitato al “II Premio Nazionale Biennale del disegno” Torre Pelice. Partecipa alla collettiva di pittura di Castel Ivano (TN).
1991 personale alla Galleria d’Arte II Castello di Trento (presentazione di Luigi Serravalli).
1992 personale alla Galleria “Il Cenacolo”, Piacenza (presentazione di Domenico Guzzi).
Prima mostra a Milano alla “Appiani Arte Trentadue” (1990)
Immagine 1 -1987, Caffarella in Roma
Immagine 2 -1987, Porta San Sebastiano in Roma
Immagine 3 -1988, Cardo e malograni
Immagine 4 -1988 Il vasetto nero
Immagine 5 -1988, Interno di Sant’Orso, dettaglio
Immagine 6 -1988, Interno di Sant’Orso
Immagine 7
Immagine 8 -1988, Paesaggio dei Fori (romani)
Immagine 9 -1990, Interno dello studio N.1
Immagine 10 -1990, Interno dello studio N.2
Immagine 11 -1990, L’ampolla verde
Immagine 12 -1990, Le polveri di Fortuny
La sottile poesia di queste tele di Luca Parmeggiani mi pare ésca, diafana, da un reticolo d’ombra. Dico poesia in modo specifico, come fosse davvero un testo letterario. A monte del lavoro di Luca c’è una suggestione di forme, proposte di forme, paesaggi traslati a loro volta in oggetti-dipinti prima di rilevarsi come dati di natura: e c’è, sottostante, il senso nel giovane pittore della rivelazione di sé nell’atto di tradursi, non già in parole, in contesto dipinto. Luca evidentemente avverte il peso, misterioso, della vocazione visiva. Non si dimentichi che è, letteralmente, figlio d’arte. I Parmeggiani avrebbero potuto dar luogo in altri tempi, nel Veneto natio, a una vera e propria scuola, o bottega. La naturalezza, la spontaneità con cui è entrato nel gioco della pittura disvelata lo dimostra. La forma nasce, infatti, nelle sue tele anzitutto come “cosa”. Sono, queste forme o cose, frammenti di una solitudine, di una modulazione smorzata che arriva alla pienezza della tela con una declinazione di silenzio.
Ci sono le nature morte, le nature viventi, i paesaggi. Le prime celebrano la propria entità: il castigato modo d’essere che ne costituisce l’essenza. Nella serie recente, un gruppo di piccole bottiglie e vasetti di colori tocca, per dir così, coi polpastrelli dell’iperrealismo lo stupore di chi osserva; ma il fondo umbratile ci avverte che si tratta di apparizioni melodicamente fantasmatiche. Quanto ai paesaggi, nascono da una decantazione mnemonica. Non dirò che ci sono reminiscenze di pittura recente (un cinquantennio) che tutti conserviamo nella castità evocativa. Luca non lavora sul “già edito”: non fa, tra i pittori d”‘immagine” della sua generazione, letteratura pittorica. Opera sul nesso della sua pacata incandescenza: chiama a costituirsi per li rami, appunto, pittorici i suoi scorci di paese.
Aleggia in questi dipinti — sottolineo i più recenti — il percorso e meglio direi il tratteggio di una musica segreta che arriva persino a concrearsi nell’effigie di uno strumento. Chi guarda quello strumento, potrà apprezzarne la perfezionata eleganza. Ma a scrutarci dentro, si avverte che non è già una forma: è metafora di una forma. Come (facciamo un esempio interamente letterario) in una pagina di James percepiamo un’atmosfera irrealistica proprio quando i fantasmi non entrano in scena.
Per queste delicatissime suggestioni, che la parte grafica conferma, il discorso di Luca Parmeggiani ha tutta la strumentazione adatta. È nato “virtuoso”. Spetta a noi, spetterà a noi seguirlo in questo recupero di un proustiano tempo “perduto” che è poi, con spontanea inversione di dimensioni, il tempo che prospetticamente abbiamo davanti da vivere.
Ferruccio Ulivi 1990
Personale alla Galleria d’Arte II Castello di Trento (1991)
Immagine 13 -1988, Ponte Milvio (in Roma)
Immagine 14 -1988, Tetti da Trinità dei Monti (in Roma)
Immagine 15 -1989, Mandorli
Immagine 16 -1989, Vetri azzurri
Immagine 17 -1989, Vetri
Immagine 18 .1990, Cardiù
Immagine 19 -1990, Conchiglie
Immagine 20 – 1990, Patrizia in un interno
Figlio del pittore Romano Parmeggiani e nipote di quel Tancredi Parmeggiani (Tancredi tout court) che è stato come una meteora nel primo tempo della pittura italiana del secondo dopo guerra, il giovane Luca Parmeggiani, nato a Thiene nel 1960, ben presto si è trasferito a Roma dove risiede. Studia lettere, filosofia e musica ma si dedica, per un imperativo interiore, alla pittura, riprendendo la strada del padre e dello zio.
Gli anni Novanta sono appena cominciati con un duro inverno ed una guerra terribile, ma critici ed operatori, nel campo delle arti, sono poi impegnati nelle loro cose. In questo senso a Bologna, Rimini e Cattolica, nel prossimo maggio, Renato Barilli e Pier Giovanni Castagnoli organizzeranno una grande mostra dedicata agli AnniNovanta , cercando di divinare le tendenze e gli atteggiamenti di questo decennio appena iniziato con i funerali d’obbligo per la “Trans” e le varie forme di citazìonismo. La mostra bolognese prevede, fin d’ora, una larga partecipazione di “oggetti di carattere extra-artistico dalla fotografia agli elementi concettuali della scrittura, al video, alla computer art e farà risaltare la vocazione all’uso di oggetti, ambienti, installazioni”.
In questo senso, Parmeggiani, che a treni’anni si affaccia al nuovo millennio avendo davanti molti anni di lavoro, proba¬bilmente non verrà ospitato, nonostante che gli organizzatori bolognesi, garantiscono il “libero eclettismo” e la sintesi generosa di tutti gli “ismi”. In realtà vi sarà scontro fra i modi “neo” di fare arte e la pittura I pittura che, a dir poco, resterà come una Cenerentola. Si dovrebbe infatti credere che negli AnniNovanta, si farà di tutto meno che la obsoleta pittura/pittura. A nostro avviso sarebbe stato, invece, interessante uno scontro, in due mostre parallele, di questi due “fatti” che la storia avrà poi il compito di integrare.
Luca Parmeggiani appartiene ad un genere che direi “minimale” prendendo a prestito un vocabolo della letteratura americana degli ultimi decenni. Sfiniti gli ideali storici, bandite le ideologie, non restava che una analisi minuta e spesso terrificante, di quanto avviene nel piccolo ambiente dell’uomo comune, ogni giorno, dove, con il calar del sole, vengono a mancare le motivazioni e il giorno dopo, faticosamente si riprende da capo, attraverso una serie di piccoli drammi o minimali tragedie, proposte dagli scrittori del genere che, praticandolo, solo già in questo fatto trovano una riabilitazione.
A parte i minori, l’America, con Raymond Carver ci ha già dato l’unico autentico erede di quel “nullismo” che Hemingway aveva così ben anticipato in uno dei suoi più famosi racconti: “A Clean Well Lighted place”. (Un posto pulito e illuminato bene.)
Ecco, direi proprio questo Parmeggiani che, nel senso sopra descritto, dipinge sempre delle “stili lite”, anche se si tratta di paesaggi urbani e non, o di ritratti, figure e quelle che in brutto modo, in Italia, si chiamano “Nature morte”. Sono tutti luoghi, puliti ed illuminati bene, dove la possibilità di racconto, fatti cioè collegati da una causa e un effetto, risulta raggelata, bloccata, infinitesima. Di fronte alla natura ribollente, drammatica del Caravaggio o a quella falsificata e cadaverizzata da Sciltian, Parmeggiani porta avanti il discorso di Morandi e descrive un mondo silenzioso, lindo, ma non gaio, dove le cose, avvolte nel loro stupore si avvicinano ai sensi di una metafisica che, in senso minimale, non può più essere nè trascendente, né trascendentale. Si può dire molto bene, come fa Lucio Barbera, “Astratto inestesimo”, cioè una pittura smagata, assorta, rapita, immersa nella contemplazione del “nadismo” Hemingwayano. Le cose dipinte così precise nei contorni e nei riferimenti, hanno fatto pensare ad un iperrealismo, che può anche star bene, tenendo conto che l”‘iper” costituiva già una risposta alla Pop Art. Cioè l”‘iper” proponeva una sua polemica risposta alla “pop” e, qui, invece, non esiste polemica di sorta, ma solo una stili life, natura silente, che senza colpa, volontà o scelta precipita come quando nel sonno, si apre una porta e ci si catapulta nel baratro infinito dell’incubo. Ma dalla nullità l’ordine del dipinto fa scaturire una novità, una bellezza ineludibile, così come le storie, aride, “invisibili”, di Carver sfociano, immancabilmente, in autentica poesia. Carver dice che la vita è: “stare zitto e guardare nel fiume, e muovere la lingua, dentro alla bocca, come un pensiero. “
Nel “Nudo disteso” del 1990, una fanciulla magra ma rotonda dove è necessario, dorme, senza espressione; dorme così profondamente che, nemmeno se si svegliasse la sua partecipazione al circostante, diventerebbe più intensa.
In “Viale Adam Mickiewicz”, cupole e campanili di Roma galleggiano inerti fra le trame dei rami spogli, nell’inverno. Nella Stili Leben “Cardo e melograni” (cm 65×21) lontani ricordi caravaggeschi vengono castigati in una teoria lineare di frutti che l’artista blocca in una luce dorata proprio come se si trattasse delle boccette e opaline (Le polveri di Fortuny, 1990, cm. 30 x 90). Per inciso ricordo che nei suoi lavori Parmeggiani usa spesso tavolette di legno, dipinte ad olio, di piccolo formato.
Nell”‘lnterno dello studio n.2 del 1990, cm. 36×48″, un cavalletto con su l’abbozzo di un quadro, una sedia e due telai di cornici sembrano voler iniziare un dialogo che non verrà mai espresso. C’è tutta l’anonimità degli oggetti con i quali tanto si convive (come le famose “bottiglie” di Morandi) che ormai “non si vedono più”. Una astrazione tanto più significativa in quanto tutto è dichiarato, invece, nella sua realtà ed oggettività. Eppure si avverte l’estrema solitudine del pittore contemporaneo, immotivato finalisticamente rispetto al suo lavoro, scettico degli stessi risultati, che tuttavia si aggrappa a questo lacerto di esistenza.
Il lavoro di Parmeggiani resta pittorico, in senso tradizionale: una pittura pulita, essenziale, rigorosa dove le cose e le persone ritratte, perdono i contorni del quotidiano, della cronaca e del presente e fanno lavorare la fantasia di chi guarda. Poiché la “cosa” non può mai significare l’essenza, chi guarda, non trovando appigli di racconto, stimolato però dalla limpidezza ossessiva delle immagini, è portato a “vivere” gli ambienti ed i momenti suoi in rapporto al descritto.
Scrivevo recentemente (Alto Adige, 7 luglio 1990), “La calma di queste proposte nel silenzio della controra, (si avverte quasi il suono tedioso di un pianoforte mal tentato)… tutto ci fa pensare che dietro quelle facciate lisce e calme, in quei folti di campagna sulle rive del Tevere, quei personaggi complessi che sono gli umani svolgono, invisibili le loro faccende (quasi come il lavoro dei tarli nelle antiche tavole): scontri ed incontri, amori e lussurie, simpatie e gelosie, generosità e vendette. “Insomma, la vita. Niente altro che la vita.
Parmeggiani appare così seducente, ma reticente, palese ma ingannatore, dolce ma arrogante, ed ambiguo. Il suo mondo grida tanto più forte ciò che sembra voler nascondere dietro ad una falsa indifferenza, una pulizia tecnica, un riservo costante, uno sprezzo così evidente e temerario che non può essere altro che amore.
LUIGI SERRAVALLI Trento, 14 febbraio 1991
Personale alla Galleria “Il Cenacolo”, Piacenza (1992)
Immagine 21 -Cestino d’uva
Immagine 22 -Circo di Massenzio (in Roma)
Immagine 23 -Circo Masssino (in Roma)
Immagine 24 -Mele gialle
Immagine 25 -Melograno
I - Il destino dei figli d’arte è, il più delle volte, alquanto aspro. Essi nascono in un ambiente che, sin da subito e loro malgrado, li informa e magnetizza. Il profumo dell’essenza di trementina e dell’olio di lino è il primo (o tra i primi) che avvertono. E, poi, pennelli e tavolozze, tubetti di colore: magnifici giochi. E i quadri — che non sanno ancora esser tali — appaiono loro, però, come una realtà profondamente e totalmente suggestiva da sollecitare immediate fantasie. Suggestione nella quale riflettersi, coniugarsi e, solo in rari casi, negarsi. Quindi, giunge il tempo della maturità. Ed il tormento, dopo, come tutti, aver “scarabocchiato”nell’infanzia, è lì, a portata di mano. Sufficientemente proprio e, in pari tempo, distante per diretta inesperienza. Finché capita — non può non capitare — che un giorno si tenti. Con la voglia segreta di fare quanto, come e forse meglio del padre.
Dichiarando, così, una sia pur inconscia competitività. A dire, infrangendo il consuetudinario rapporto con un genitore artista, forse troppo preso dalle ragione della propria creatività, “io esisto”. Si tratta, è chiaro, di un ‘accelerazione non sulla vanità, ma del profondo.
I primi tentativi saranno — al di là degli esiti e dì una compiuta coscienza — spiritualmente felici, oggettivando la misura — incerta ma equilibrata — del proprio sé. Ma i tormenti di cui si diceva, naturalmente, non terminano al primo incontro. Confrontarsi, creando, con la pittura è impresa troppo complessa. Quindi ci si evolve, non ci si contenta più delle prime acquisizioni, si affina tecnica ed esperienza, si cerca, con aiuti sino a un certo punto graditi e non richiesti, una dimensione propria che, quanto meno tematicamente, osservi una distanza dall’archetipo famigliare. Cui istintivamente, si aderisce in pieno o da cui totalmente si trasgredisce. Poi, quando sembra che la strada della propria individualità sia sufficientemente segnata, e si decide che quanto realizzato debba entrare in rapporto col mondo, non fosse altro che per verificarsi, sopraggiunge il critico che, proprio quel tormento, accennando ad una storia e comunicandola, per di più, ad altri, fa riemergere d’improvviso. Nel momento in cui, superate molte perplessità e comunque credendo di star per tagliare definitivamente il cordone ombelicale; nel tempo in cui, forse, quel tormento, si diceva, s’era iniziato a stemperare. Ecco l’asprezza del destino dei figli d’arte. Si potrà far tutto ed il contrario di tutto; si potranno concretare le distanze più profonde e finanche laceranti. S’invecchierà, un giorno, ma si rimarrà sempre con l’incubo d’esser considerati figli d’arte. Ai quali ci si immagina che debba chiedersi più che ad altri. Quanto meno per mostrare e dimostrare un’autonomia. La strada, per loro, è tutta in salita.
Il problema, tuttavia, non ci sembra che per Luca Parmeggiani si profili come il più angoscioso. Tra se e il padre Romano crediamo eh ‘egli abbia posto una sorta di distanza di sicurezza, la quale chiama rispetto ed ammirazione. Filtri sufficienti, se forti abbastanza, per instaurare un colloquio, per consigliarsi senza rimaner vittima sul campo. E ciò perché, indubbiamente, il suo mondo poetico è altro.
II – E quello, infatti, non d’una realtà nella sostanza onirica, ma di una realtà di continuo osservata e studiata — pensiamo ad alcuni paesaggi, ad esempio — per accezioni diverse. Quelle, anzitutto, che non consentono di dipingere distante dal vero. Ed ecco che Luca può capitare d’incontrarlo, col cavalletto da campagna, nei luoghi dei suoi quadri. Accentando per questa via non solo il problema del vero, ma quello, strettamente connesso, delle luci e delle ombre; di timbriche naturali, per nulla sublimate. Di interpretazioni, ancora, che assumono una gestualità, oramai classica e più lontana.
Immagini, per dirla in breve, che sembrano evocare l’aria e l’area macchiaiola, corretta — alludiamo al Circo Massimo e alla Veduta del Palatino — da un ‘asciuttezza, tutta propria, del ductus materico che, pur da quegli artisti finisce, non fosse altro che per ciò solo, per allontanarlo. C’è, dunque nel pittore, una sorta di latente classicità, la quale curiosamente potrebbe far pensare alla medesima cui alcuni si trovarono di fronte negli anni Venti.
Ciò perché i raggiungimenti del nostro giovane Parmeggiani apparirebbero — e non diciamo che non ne abbia, per se, conoscenza e coscienza — non considerare il grande flusso di quei movimenti d’avanguardia che hanno, da par loro, ispirato buona parte della recente creatività. Egli, solitario e fuor di dubbio conscio del significato antico di pittura, ha preso a dipingere nel luogo esatto in cui altri, in un passato nonostante tutto non poi tanto abissale, hanno reiterato, mutato o abbandonato una direzione di ricerca. Posizione che, d’altronde, non fa del tutto meraviglia, considerando l’attuale ed epocale riacquisizione dei termini classici del dipingere.
Si diceva, poc’anzi, della materia. La si osservi. E come una pellicola sottile dalla quale, però, s’intuisce l’esistente qualità di un impasto. Da parte nostra intuendo il porsi di Parmeggiani d’uno dei problemi fondamentali del suo “mestiere”. Quella sottigliezza, naturalmente, ha una ben precisa ragione d’essere. Il pittore potrà pur schermirsi o non riconoscerne la valenza; ma quella soluzione testimonia la ricerca d’una relazione — meglio diremmo d’un ‘ascendenza — con l’a-sciuttezza (parietale) dell’antico. Riproponendosi la questione d’una memoria con cui, di continuo, confrontarsi.
Si dirà di più. La scelta stessa del supporto: il legno, la dice in ogni caso lunga. Per sua qualità questo assorbe il colore. In gergo si dice che ‘ ‘tira ‘ ‘. E più lo assorbe, più ovviamente la materia s’assottiglia. Il che non vuol dire, anzi, che la timbrica divenga diafana. E, ciò non bastasse, a dare un ‘ulteriore prospettiva antica, si sottolineerà la particolarissima dimensione di molti di quei quadri. Una misura — lunga e stretta — che rammenta quella delle predelle. Una misura, in ogni caso, che costringe longitudinalmente lo sguardo. Accezione che vuol significare — dal momento che sempre esiste, nella progressione prospettica dì un qualsivoglia luogo aperto, un ostacolo oltre cui proprio lo sguardo è impedito a volgersi — volontà di vedere ed osservare — fagocitare, quasi — il più possibile.
Mentre nelle nature morte — Melograni, Petali di bugamville — crediamo di poter asserire che il discorso sia in qualche modo diverso, se non inverso. Qui è come si percepisse una locuzione essenzialmente centripeta. Gli oggetti sono, pur essi, non di rado testimonianza di un’esistenza tanto antica da dirsi arcaica — ci riferiamo alle conchiglie — in se nuovamente lo spazio assommando ed assorbendo. Al di là di quella distanza che consente, reciprocamente, che le forme si vigilino ed esaltino. Forme che, una volta ancora, finiscono per rivelarsi attraverso sensazioni umbratili e luminose.
Parmeggiani dispone con cura questi suoi oggetti sul tavolo dirimpetto al cavalletto. Fa si che sull’Ampolla verde, ad esempio, giochino i riflessi della finestra e, sulla materia vetrosa, si formulino le trasparenze. Insomma, il suo — lo si sarà percepito — è un tentativo camaleontico di far pittura. Se non fosse, poi, lo sguardo ad imprimere una traiettoria in qualche maniera innaturale, sebbene decisamente funzionale alla pittura. Diciamo che il suo occhio volge, il più delle volte, dal basso verso l’alto; facendo si che il tavolo assottigli al minimo indispensabile — non raramente una sola linea
la propria dimensione, a vantaggio di un fondo ampio su cui, con maggiore enfasi, gli oggetti potranno leggersi e stagliarsi.
Insomma, Luca Parmeggiani è, certamente, un giovane pittore, il quale però possiede (dopo quanto ali ‘i-nizio asserito, diremo geneticamente) una sapienza consumata. Quella che, al meglio, si riconosce e coniuga nell’interno dello studio n. 2. Un cavalletto con un quadro appena iniziato; una sedia vuota, due telai dalle misure diverse ad equilibrare e serrare la ritmica del racconto. È quanto gli appare, alzatosi per osservare il dipinto a distanza. E lo sguardo — questo, ancora una volta
prima di concentrarsi sulla tela, coglie l’assieme. Che, in tal modo considerato, propone una sorta di enigma metafisico. Adombrando, come per un gioco di specchi, i concetti di presenza ed assenza.
III – Naturalmente, questo di Luca Parmeggiani, potrà considerarsi non approdo ultimo della sua ricerca. Ma transito all’interno della stessa. Di qui, egli si evolverà certamente sempre più affinando una visione che, non tradendo il già fatto, conduca ad un ancor più evidente e necessario diapason.
Roma, gennaio 1992 Domenico Guzzi